Diritti (tv) e doveri (impellenti) di un'industria (calcio) che senza la riforma dei campionati rischia di andare in malora

14.06.2017 08:30 di Vittorio Galigani   vedi letture
Diritti (tv) e doveri (impellenti) di un'industria (calcio) che senza la riforma dei campionati rischia di andare in malora
TMW/TuttoC.com
© foto di Luigi Gasia/TuttoNocerina.com

Ginettaccio Bartali (un campionissimo del pedale, un mito per quelli della mia generazione) avrebbe esclamato. “E’ tutto sbagliato, è tutto da rifare”. Il riferimento è all’asta per i diritti televisivi della Serie A del triennio 2018 – 21 che lo scorso 9 giugno è andata quasi deserta. Era inevitabile, in considerazione del fatto che le offerte presentate rappresentavano soltanto la metà delle aspettative. La metà di quanto i club pensano di incassare per il prossimo triennio.

Si sono presentate soltanto Sky e Perform. Mediaset si è data uccel di bosco. Anche dopo che l’Antitrust aveva respinto il suo ricorso. Si sono nascosti anche quelli di Telecom. L’assenza degli uni e degli altri ha fatto saltare il banco.

L’ammontare delle offerte presentate si aggirava intorno ai 550 milioni a stagione. Nettamente inferiore ai 950 circa incassati per il triennio tutt’ora in corso. L’assemblea delle società ha bocciato tutto all’unanimità, ritiene che il calcio italiano valga molto di più delle offerte pervenute. Attenzione però! Il mercato sta esprimendo un parere totalmente diverso, nettamente al ribasso. Carlo Tavecchio si è visto costretto a non assegnare nessun pacchetto. Appurato che le offerte non erano congrue, rispetto alle aspettative.

Per decidere a chi assegnare i diritti c’è tempo fino alla fine dell’anno. L’asta sarà necessariamente rimodulata e ripetuta nei prossimi mesi. Si è passati dai 945 milioni del passato recente, alle crollate, “misere” offerte dell’attuale. I parametri di valutazione, rispetto all’interesse (ed al denaro) che muove il campionato d’oltre Manica, sono da brividi. In Premier i club si sono divisi 2,7 miliardi di euro. Il Chelsea ne ha incassati 173 milioni. Le squadre retrocesse 105, più della stessa Juventus.

Quella di Mediaset e di Telecom non è una rinuncia polemica. E’ la presa di coscienza delle grandi televisioni e dei distributori. L’indice di una legge economica, quella che trova il punto di incontro tra domanda ed offerta, che “mortifica” i presidenti della Serie A. Mette in evidenza che lo spettacolo offerto dal nostro massimo campionato è scaduto di immagine e di valore. Di interesse di massa. Una mossa di mercato che, alla luce delle modeste prestazioni e dei pochi risultati internazionali, era  anche prevedibile.

Una previsione finanziaria in proiezione, Mediaset inclusa, si attesta sulla possibilità di “racimolare”, per il prossimo triennio,750 milioni a stagione. Significherebbe un taglio del 25 percento alle aspettative dei presidenti. Auguriamoci di aver sbagliato. Sarebbe come tramortire la Serie A, già oberata dai suoi debiti miliardari. 

Non sto andando fuori tema.

A pioggia, sarebbe come inferire un colpo mortale ai club della Serie B ed a quelli della Serie C. Tutto questo non deve stupire. Senza i proventi delle televisioni il calcio italiano andrebbe incontro al fallimento. Le misere entrate del botteghino e quelle modeste del marketing non permetterebbero una lunga sopravivenza. 

Un sistema purtroppo fatto di spese folli, quello del calcio italiano. Che va in fretta ridimensionato. Nei contratti con i tesserati e nelle parcelle/ commissioni ai procuratori. Che va rivalutato con adeguati investimenti nei settori giovanili.

Un preambolo succoso ed articolato, quello sopra esposto. Per evidenziare quanto il già traballante futuro della Serie C possa diventare precario. Gravina ha già lanciato il segnale d’allarme sulla componente economica. Ha parlato di sue possibili dimissioni, ha annunciato che non rimarrebbe a fare soltanto il “passacarte”. Una presa di posizione anche comprensibile. Il prevedibile/pronosticato taglio ai diritti televisivi ridurrebbe ancor più l’appannaggio economico della categoria. Chi è già in crisi si troverebbe alla canna del gas.

Riemerge in tutta la sua gravità il problema dei format. Delle indispensabili riforme. Il calcio italiano non è in grado di “sostenere”, già nel presente, 102 club professionistici. Certamente per carenza di impianti e di strutture. In assoluto per pesanti situazioni debitorie e di bilancio.

Il grande ridimensionamento dei programmi della Reggiana, messa in mano a un “taglia teste”, che si sta giocando una fetta importante del suo futuro. Le “tarantelle” che si ballano intorno al Como, con impegni finanziari e bonifici bancari che ballano tra la notte ed il giorno. La difficilissima situazione creatasi in seno al Catanzaro, con la proprietà impossibilitata ad intraprendere qualsiasi tipo di azione. La precarietà economica del Messina. La cancellazione del Latina. Il monte debiti del Vicenza. Il contenzioso del Modena con l’Amministrazione Comunale. Qualche presidente che ha manifestato l’intenzione di “mollare”. In pentola bolle questo e tanto altro.  Incluso l’inasprimento, non solo economico, voluto dai vertici federali, sulle norme che regolano il rilascio della licenza nazionale ed i ripescaggi. Tutto sta a dimostrare che le possibilità di mantenere in piedi, nella prossima stagione, i tre gironi a 20 squadre sono alquanto scarse.

Torna inevitabilmente di attualità il Tavecchio pensiero. Una Serie C in due gironi da 18/20 compagini. Sarebbe un campionato perfetto e senza dubbio “sostenibile”. La riforma non potrà andare in vigore  prima di due/tre anni. Nel frattempo è però auspicabile il rigido rispetto di un rating capace di escludere immediatamente, dai giochi, chi non è in grado di rispettare le regole.

Con una speranza. Che la Lega di Serie A sappia dimostrare di essere in possesso delle carte migliori per vincere la sua partita sui diritti televisivi. Ne va dell’immagine e degli interessi di tutto il sistema calcio nazionale. Un’industria che solo qualche anno addietro era vanto ed orgoglio di tutto il Paese rischia di andare in malora.