IL CALCIO ALL'EPOCA DEI FALLIMENTI. DA AREZZO A MATERA, STORIE DI ORDINARIA IRRAZIONALITÀ. CATANIA E SAMB, DECIDETEVI. UN RETROSCENA SULL'AKRAGAS, UN PIZZICO DI UMANITÀ A PONTEDERA

Nasce a Bari il 23.02.1988 e di lì in poi vaga. Laurea in giurisprudenza, titolo di avvocato e dottorato di ricerca: tutto nel cassetto, per scrivere di calcio. Su TuttoMercatoWeb.com
21.02.2018 00:00 di  Ivan Cardia   vedi letture
IL CALCIO ALL'EPOCA DEI FALLIMENTI. DA AREZZO A MATERA, STORIE DI ORDINARIA IRRAZIONALITÀ. CATANIA E SAMB, DECIDETEVI. UN RETROSCENA SULL'AKRAGAS, UN PIZZICO DI UMANITÀ A PONTEDERA
TMW/TuttoC.com

Perché amiamo il calcio? A meno di non essere capitati su queste pagine per puro caso (magari cercavate tuttosci per monitorare la valanghina azzurra in Corea), tutti noi ci siamo posti almeno una volta questa domanda. Oppure ci è stata rivolta, da qualcuno che evidentemente non capisce il fascino di 22 ragazzoni in calzoncini che inseguono un pallone, chi col banale scopo di infilarlo nella porta opposta, chi con l’apparente intenzione di evitarlo in favore delle caviglie di qualche sventurato avversario.

Ci sono migliaia di motivi, per cui amiamo il calcio. Razionali e non. Il primo, quello per cui ci si avvicina, è che stiamo parlando di uno sport facile. Ci sono poche regole, bastano un pallone (o un suo surrogato) e due ciabatte per giocare. Per quanto riguarda gli altri, ognuno ha il suo. Io, per esempio, a cinque anni vidi un ragazzo con un codino e il 10 sulle spalle, ci intravidi della magia e la lasciai crescere in me. Poi il ragazzo s’è arreso, gli sono subentrati altri idoli, la magia si è un po’ affievolita, ma non è mai scemata. Anche se ci provano, a farla sparire.

Nel leggere le cronache, e anche certe analisi, pare che non ci sia motivo di amare ancora il calcio. Tutto sporco, tutte truffe, personaggi improbabili che si avvicendano. A guardare le ultime vicende che riguardano la Serie C, viene un po’ di amaro in bocca. Prima Modena, poi Vicenza, ora Arezzo, domani chissà Matera e Akragas. C’è del marcio in Danimarca. Di razionale, in questo mondo, sembra esservi davvero poco. C’è chi non si cura di certe storie, certe vicende, che poi sono vicissitudini umane. Guardiamo ai calciatori e li immaginiamo casta. Poi in Serie C, quando va bene, si vive con 1200 euro al mese. Come un lavoratore qualsiasi. E in Serie B c’è chi chiede contanti perché risulta più comodo. Come il commerciante vicino casa che ci fa l’occhiolino e ci chiede se vogliamo la ricevuta o meno. Frammenti di normalità, piccole meschinità, miseria e nobiltà di un settore che è lo specchio dell’Italia.

Qui non si parla di politica, né di economia. Parliamo di un giocattolo, non si può mica pretendere di essere seri. Però a volte c’è da rendersi conto che, quando si parla di calcio, si parla di un’impresa. E quando si parla di un’impresa, nel 2018, in Italia, la difficoltà è all’ordine del giorno. Ne falliscono a centinaia, di imprese. Tutto sommato, per due fallimenti e mezzo, potremmo anche ritenerci soddisfatti. Così non è, perché stiamo parlando di qualcosa di molto diverso. Uno sport che dà, o restituisce, identità; che parla al cuore e alla pancia, più che al cervello. Lo spettacolo che deve continuare, sempre e comunque. 

Da un punto di vista razionale, il giocattolo si è rotto tempo fa. Non si tratta di prendere posizioni assolute, né di prospettare soluzioni aprioristiche. Chi vi racconta che tutto è da buttare, sbaglia tanto chi spiega che no, è ancora quasi tutto nella norma. La sostenibilità del sistema è a rischio, è un dato di fatto. Non è ancora compromessa, per fortuna, ma manca poco. C’è da muoversi, questo sì. Mandare avanti una società di calcio, oggi, in Serie C, non conviene. Però mandare avanti una società di calcio, oggi, in Serie B, ti rovina. Dei personaggi da operetta che gravitano attorno al pallone potremmo e dovremmo fare a meno. Di millantatori sono piene le cronache, e a volte riescono a diventare presidenti: lì avvengono i danni. Ma le storie recenti del nostro pallone sono fatte anche da imprenditori ordinari: più o meno seri, più o meno facoltosi, più o meno convinti, ma che non gettano i remi in barca al primo chiaro di luna. Che sono lì per guadagnare, o almeno non perderci, ma non per speculare. Sono storie diffuse: è il caso di Matera, ma anche di Agrigento, Andria, Pagani, Siracusa, Reggio Calabria, Pontedera, Lucca. È una geografia complicata, che racconta un Paese pallonaro ma in difficoltà. Fare calcio, per chi vorrebbe gestire una società con criteri ordinari e razionali, è quasi impossibile. C’è da metterci la passione, e quella a volte può anche finire, senza colpe. C’è da mettere ordine, e di occasioni ne abbiamo avute. Sono state sciupate, a volte con soluzioni che tali non sono, a volte con trincee fatte di preconcetti. Sono comunque andate, e dall’alto aspettiamo ancora un segnale. 

Perché amiamo il calcio? Perché sa essere razionale e irrazionale allo stesso tempo. Unisce cuore e cervello. Nel raccontare una Serie C in difficoltà, ci si scontra con una realtà complicata, incerta. Ma anche con situazioni che si fa fatica a comprendere. Ad Arezzo, per esempio, non si è ancora capito chi abbia i soldi, chi decida, cosa voglia fare, di chi siano le responsabilità. Torna NEOS? Pare di sì, li aspetteremo al varco. A Catania, Lucarelli è prima esonerato e poi richiamato a bordo. Il libro paga, alla voce allenatori, non può essere appesantito più di tanto. Ma allora perché sfiduciarlo, seppure in via indiretta? A San Benedetto, proprietà e allenatore litigano a microfoni accesi un giorno sì e l’altro pure: o vi tenete Capuano, o lo esonerate. Salvateci dalla pantomima. A Matera non è ancora chiaro cosa sia successo né cosa succederà: le difficoltà ci sono, ma la proprietà cercherà di tenere duro finché possibile. Ad Agrigento si vive di calma apparente. Un retroscena, sull’Akragas e sull’irrazionalità del nostro calcio: Giavarini, a inizio stagione, era pronto a grandi investimenti. C’era il progetto di sistemare l’impianto di illuminazione dell’Esseneto, c’era la scelta di puntare su Taibi come nuovo direttore sportivo. Quanto concreti fossero questi progetti, il tempo non l’ha potuto dire. Perché, dal giorno alla notte, mezza tifoseria si è rivoltata contro: mica puoi fare calcio ad Agrigento, se sei di Licata. Tutto tramontato, sogno che diventa incubo. Le responsabilità? Saranno pure da dividere, ma c’è chi ancora chi aspetta il dottor Monzi. O Nuccilli. 

Perché amiamo il calcio? Perché regala emozioni, e un pizzico di umanità, anche in tempi complicati. A Reggio Emilia, è nuovo amore tra Mike Piazza e la tifoseria. Il primo è riuscito a far capire il suo programma (della moglie, dettagli) di contenimento dei costi, la seconda risponde con numeri da Serie A. Risultato: la squadra vola. Occhio alla Reggiana: non raggiungerà il Padova, ma sa come si perdono i playoff e forse ha imparato anche come si vincono. Un pizzico di umanità, a Pontedera. I giocatori dell’Arezzo ci sono arrivati con le proprie macchine, a spese proprie. Ancora, l’equilibrio: da Arezzo a Pontedera ci sono 135 km, un’ora e mezza di auto. Non stiamo parlando della tragedia che qualcuno ha enfatizzato, di una trasferta che tanti lavoratori si sobbarcano. Però non stiamo parlando neanche di una cosa normale: consuetudine o meno che sia, non s’è (quasi) mai vista una carovana di calciatori professionisti in autostrada. Dopo la partita, il Pontedera ha offerto la cena ai giocatori avversari. Che hanno rifiutato l’invito, perché si sarebbe fatto troppo tardi. È andata così, ma sarebbe stato bello celebrare quella cena: tutti insieme, altro che terzo tempo. Un modo come un altro di ricordarci perché amiamo il calcio.