IL CALCIO NON È IL MALE DELL’ITALIA, MA IL SUO SPECCHIO PIÙ FEDELE SI. CHE PIACCIA O NO, POLITICA E SPORT VANNO DI PARI PASSO: PIÙ ECONOMIA E MENO EMOZIONI. E CHI CI RIMETTE È SEMPRE LA SERIE C

Nata nello stesso anno dei "Simpson", pensando che questo non sia un caso.
Collaboratrice di TuttoC.com e TuttoMercatoWeb.com, se capita anche in radio e tv. Appassionata di calcio, quello vero.
25.01.2018 00:00 di Claudia Marrone Twitter:    vedi letture
IL CALCIO NON È IL MALE DELL’ITALIA, MA IL SUO SPECCHIO PIÙ FEDELE SI. CHE PIACCIA O NO, POLITICA E SPORT VANNO DI PARI PASSO: PIÙ ECONOMIA E MENO EMOZIONI. E CHI CI RIMETTE È SEMPRE LA SERIE C

Una Serie C sempre più bistrattata, considerata ormai il male del calcio italiano, quella categoria che produce solo danni, quella categoria che va rivista, quella categoria che va portata al semiprofessionismo, quella categoria sulla quale si potrebbero dire mille cose negativa. Ma quella categoria che alla fine è il solo capro espiatorio di un cancro che ha dilagato nel calcio italiano, che non parte certo dal basso perché, come si suol dire, il pesce puzza dalla testa. E a cosa ci si possa riferire  - senza che nessuno se ne senta offeso - è abbastanza evidente. Il problema del calcio italiano è la FIGC, che gioco-forza, si ripercuote poi su quello che è l’ultimo gradino, la Serie C in questo caso (e non perché sia meno importante, ma perché, partendo dall’alto, è l’ultimo step del calcio professionistico).

Ma prima di addentrarci oltre, è altresì giusta un’ulteriore precisazione. Fondamentalmente Gravina ha ragione, i problemi della Serie C spesso arrivano dalla Serie B – basta ripensare al caso Modena e Vicenza, club i cui problemi sono stati evidenziati maggiormente al momento della loro retrocessione, e si è evitato un caso Pisa solo perché, seppur raramente, imprenditori seri che non vogliono il male del calcio esistono ancora -, ma poco importa, di parole se ne potrebbero dire tante, peccato poi i fatti dicano che il caos scoppia in terza serie, portando come conseguenza una cattiva immagine di una categoria che ha la sua rispettabilità, come tutte le altre. O come almeno tutte le categorie dovrebbero avere. Per quanto poi sembra che si stia facendo di tutto per togliere l’onorabilità a un calcio, quello del Bel Paese, che ha segnato la storia di questo sport, che è stato il trampolino di lancio per campionati veri.



Il non saper valorizzare è però un tratto distintivo dell’Italia, di un’Italia sempre più a rotoli che preferisce vedere la pagliuzza negli occhi altrui piuttosto che la trave nel proprio. Gli esempi vanno per lo più fuori dal calcio, la malora nel quale è andata Pompei è una delle tante evidenze, ma piuttosto che pensare a questo si preferisce scandalizzarsi di un’America che elegge un dubbio personaggio come Trump o scatenare l’opinione pubblica contro Cecilia Rodriguez e il figlio di Moser – non me ne vogliate se, del bel giovincello, dimentico il nome, ma i miei canoni di bellezza vanno a un più ribelle Osvaldo a un Caniggia, tanto per citare qualche campione affermatosi in Italia -, senza poi soffermarsi troppo sul fatto che il 4 marzo ci saranno le votazioni politiche, dopo anni nei quali il popolo italiano non votava più: l’ultima possibilità di scelta fu nel febbraio 2013, quando l’allora presidente Napolitano affidò a Letta l’incarico di formare un governo vista l'impossibilità di dar vita a quello guidato da Bersani, che alle elezioni ottenne la maggioranza assoluta alla Camera, ma non al Senato. Si scatena quindi la guerra alle coalizioni. Esattamente come sta accadendo per la presidenza della FIGC: che è comunque una poltrona politica, perché alla fine, come dichiarò ai microfoni di TMW Radio anche un uomo di calcio quale è Lovisa, presidente del  Pordenone, il calcio oggi è “fatto di meno emozioni e più interessi”. Club che sono aziende vere e proprie. Economia che gira. Il giochino delle alleanze, esattamente come per la politica, si è già scatenato, ma, proprio come per la politica, senza che si arrivi a qualcosa di concreto: solo bagarre. Tre candidati, Sibilia, Gravina e Tommasi, con un Lotito pronto  – per dirla in gergo – a far le scarpe: profili tutti diversi tra loro, con il solo Tommasi più defilato e taciturno. Ma i calciatori al potere l’Italia sembra non volerli.
Il discorso da fare sarebbe lunghissimo e forse ripetitivo, ma quel che preme sottolineare è che, come nell’attualità, anche nel calcio, l’attenzione preferisce essere spostata su cose più di margine e meno atte a cambiare veri equilibri di potere, come a esempio il calciomercato o la VAR: che si, deve essere migliorata, ma non è certo il problema maggiore. Al massimo, quando si vuol fare gli intenditori di superficie, si punta il dito contro la Serie C, la categoria inutile, quella dove le squadre falliscono: ma, come detto in precedenza, il problema parte dall’alto. Sulla mancata qualificazione dell’Italia al Mondiale, la punta dell’iceberg, quella che ha palesato la latente crisi calcistica, non ci saremmo dovuti soffermare solo sull’eventuale incapacità e le scelte di Ventura – anche se, non ce ne voglia, “Mister, ma il 4-2-4 con la Spagna perché?” – ma approfondire la questione andando alla radice del problema. Capendo perché il calcio italiano sta morendo, come sta morendo l’Italia. Un malato terminale che non si decide, che non capisce se occorre l’eutanasia o se qualche farmaco può guarirlo.

Mi piace quindi ricordare la frase di un collega, Antonio Scuglia, penna di un quotidiano della mia città natale (Pisa), Il Tirreno, e di TuttoSport, una frase che mi ha accompagnata negli anni, perché alla fine è sempre attuale, e che non a caso ho scelto di esaltare nel titolo di questo editoriale: “Il calcio non è il male dell’Italia, ma il suo specchio più fedele si”.