LO SPETTACOLO... MA SENZA PALCOSCENICO. LA SITUAZIONE DEGLI STADI CARTINA DI TORNASOLE DEL NOSTRO CALCIO. DA PISA AD AGRIGENTO, UNO STIVALE NEL CAOS
Nata nello stesso anno dei "Simpson", pensando che questo non sia un caso.
Collaboratrice di TuttoC.com e TuttoMercatoWeb.com, se capita anche in radio e tv. Appassionata di calcio, quello vero.
“Cosa vorresti per Natale?”
“Uno stadio nuovo!”
Domanda sicuramente molto usuale e ripetuta in queste settimane che ci avvicinano alla più attesta festa dell’anno, il Natale appunto, mentre la risposta invece differisce: nessun pargolo, ma neppure persona più adulta, risponderebbe mai di volere uno stadio nuovo, anche se probabilmente, girata a molte società di calcio, questa risposta non sarebbe così inedita.
Perché, inutile raccontarcelo, uno dei problemi del mondo pallonaro italiano – o meglio, uno dei tanti problemi – riguarda lo stadio: strutture dove si è scritta la storia dei club, e non importa se blasonati o no perché la storia è sempre storia, ma troppo spesso fatiscenti, al limite del praticabile, lontani anni luce dalle moderne strutture che, persino nelle serie minori, si vedono nei paesi europei. Impianti moderni, facilmente fruibili e localizzati in punti della città perfettamente collegati da mezzi pubblici, esteticamente belli dentro e fuori, con annessi anche locali commerciali nei quali possono tranquillamente sostare e girare le famiglie e con spesso anche la presenza di musei che raccontano la vita della società di casa. Case, appunto. Per altro spesso anche di proprietà.
Situazione di difficile attuazione in Italia, dove gli stadi di proprietà sono solo 4,quelli di Juventus, Sassuolo, Udinese e Frosinone: ma del resto, se in Serie C soprattutto si fatica a pagare l’iscrizione di un club alla categoria o gli stipendi ai tesserati – anche se questi ammontano, come in caso dell’Akragas, a circa 30mila euro netti al mese (vero, il lordo in Italia uccide l’imprenditoria) – viene facile capire che costruire addirittura uno stadio è impossibile. Perché per quanto gli introiti futuri ripaghino ampiamente il tutto, creando un business nuovo, serve un’eccellente base iniziale di investimento, oltre a un pool di specialisti non indifferente. Questo però non giustifica il fatto che ci sia un continuo rimpallo tra tante amministrazioni comunali e i club quantomeno per ammodernare o rendere più utilizzabili quelli già esistenti, alcuni proprio ai limiti della fatiscenza; soprattutto poi in terza serie, dove svariate formazioni si ritrovano a chiedere ospitalità a stadi di altre squadre andando magari a gravare maggiormente su un bilancio che potrebbe essere più “quadrato” se l’affitto da pagare fosse solo al proprio comune di appartenenza. Ma è il concetto di “struttura sportiva” a difettare, perché a questa problematica va anche aggiunta quella degli allenamenti giornalieri, dato che in Serie C molte formazioni sono costrette a girovagare per i campi di provincia che non hanno magari neppure i mezzi idonei per il calcio professionistico, che invece dovrebbe disporre di svariate cittadelle dello sport dotate non solo di campi da gioco, ma anche di palestre e piscine: su questo una seppur piccola società come la Giana Erminio dovrebbe far scuola, essendo un raro caso tra quelli che dispongono di un centro sportivo situato in un’area verde di 12.000 mq che comprende un campo da calcio a 11 scoperto, uno da calcio a 7 scoperto e due da calcio a 5 coperti (tutti in erba sintetica di ultima generazione), una palestra di oltre 1.000 mq e ben tre piscine coperte da 25, 16 e 6 metri, quest’ultima a fondo mobile.
Più emblematici, però, e purtroppo nel senso opposto, il caso del derby Pisa- Livorno con un’ “Arena Garibaldi” priva dei tifosi labronici e degli ultras locali, che, a causa di una capienza ridotta e un conseguente numero esiguo di biglietti concessi, decisero di seguire la partita dall’esterno dello stadio oppure quello di Prato e Akragas costrette a emigrare rispettivamente a Pontedera e Siracusa con un più che esiguo pubblico a seguito, perché non sempre le spese di costanti trasferte sono sostenibili. Altro problema: impianti non idonei e prezzi non propriamente popolari per accedervi. Cui si sommano assurde e restrittive leggi che spaziano da costruzione di tornelli per impianti superiori ai 9999 posti a biglietti nominali, fino ad arrivare alla tessera del tifoso e al divieto di trasferta: l’unico male del calcio sembrava essere la violenza, che andava estirpata. Peccato, però, che la violenza è spesso fuori dagli stadi, e non sempre per mano di ultras o tifosi. Ma pure su questo l’Italia è indietro anni luce: vige ancora il pregiudizio che chi frequenta gli stadi sia un animale in cattività da chiudere in gabbia. Signori miei, non è proprio così: alla stadio c’è solo passione per quello che è lo sport più in voga del mondo. L’Europa, con impianti che pullulano di famiglie, dovrebbe insegnare anche questo: tanto che l’indice di presenze negli stadi esteri è circa del 40% superiore a quello dell’Italia.
Nel Bel Paese, però, è stato più importante attivare il G.O.S. (Gruppo Operativo Sicurezza), creato, circa le manifestazioni calcistiche, per ogni stadio che può contenere oltre 10.000 spettatori, che una legge ad hoc sugli stadi stessi. Del quale si continua però a parlare. E che si attende. Come forse, in una celebre opera teatrali di Samuel Beckett, si attende Godot.
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