Teramo, D'Andrea: "Qui sono tornato il calciatore di Foggia"

L'attaccante del Teramo Filippo De Andrea ha parlato in un'intervista concessa ai canali ufficiali del club biancorosso.
Visto il numero di maglia scelto non dovresti essere scaramantico…
"In effetti non lo sono, ma è la prima volta che mi capita il 17. Sarà perché è il giorno in cui è nata mia madre Alessia, quindi lo ritengo di buon auspicio. E segnare all’esordio è stato certamente un altro bel segnale".
Parlaci della tua famiglia.
"Ho un fratello più grande e uno più piccolo, si dice che solitamente quelli di mezzo sono i più pazzerelloni. I miei genitori gestiscono un bar a Riano, il paese natìo situato nei dintorni di Roma, ma la cosa bella è che ho diversi parenti abruzzesi, per la precisione originari di Cerchiara. I miei nonni, infatti, da giovani, sono partiti proprio da lì per sbarcare nella Capitale. Non è un caso che dal mio approdo a Teramo, li abbia risentiti praticamente tutti".
Un aspetto che ti manca di Roma e uno che non sopporti?
"Ponte Milvio è un luogo a me caro, il punto di ritrovo per vedersi con gli amici dalla maggiore età, perché il più semplice per congiungere le esigenze di tutti essendo posto al centro cittadino. Non sopporto il traffico, sarà un’ovvietà ma è così, fortunatamente conosco le scorciatoie giuste per aggirare tali problematiche, diciamo che sono avvantaggiato rispetto ai turisti".
L’attuale proprietà biancorossa potrebbe essere per te una seconda famiglia: spiegaci perché.
"Sono cresciuto con loro sin da quando ero bambino: dopo aver conquistato lo Scudetto con il Tor di Quinto, fu Davide Ciaccia, tramite il direttore Garelli, ad intravedere in me determinate qualità, portandomi a Fregene, la classica seconda gavetta. Con loro ho sempre avuto un rapporto unico, mi hanno dimostrato enorme affetto, infatti è stato emozionante tornare a casa rivedendo il Presidente Chierchia e gli altri dirigenti, fondamentali per la personale crescita calcistica e professionale".
Da bambino nutrivi altre aspettative o hai subito pensato al calcio?
"Mi bastava un pallone da calciare, sono sempre stato molto attivo, avevo la compagnia giusta e ritornavo a casa la sera sporco di fango. Quante “tedesche” a Riano, disegnando la porta sul muro, come tutti d’altronde".
Chi era il tuo idolo adolescenziale?
"La mia è una famiglia di laziali da generazioni, guardavamo i bianco-celesti in televisione, calciatori come Di Canio e, ora, Immobile, sono dei simboli. L’area di rigore è sempre stato il mio terreno ideale, chiaramente da centravanti, superando qualche tentativo di retrocedermi a centrocampo".
Nel tuo percorso giovanile l’approdo in un club prestigioso come la Lazio cosa ha rappresentato?
"Erano anni in cui la tecnica prevaricava su ogni altro aspetto, ma non si pensava troppo al futuro vista la tenera età, bensì esclusivamente a migliorarsi all’insegna del sano divertimento".
Fino ad alzare il tuo primo trofeo…
"Ricordo che c’era lo storico Presidente Massimo Testa e la filosofia portata avanti negli anni era quella di praticare il 3-5-2 vecchio stampo, con il libero staccato. Caratterialmente sono cresciuto molto, riuscivano ad inculcarti una mentalità di ferro: vincemmo inizialmente il titolo regionale, superando ai rigori la leader dell’altro girone, la Vigor Perconti. Ottenuto il pass nazionale, arrivammo fino alla finale, giocata contro una squadra milanese a Firenze: lì il tricolore divenne realtà!"
Il biennio di Fiuggi ti ha catapultato nel panorama nazionale con la bellezza di 28 reti…
"Dopo quelle annate, infatti, arrivò l’interesse della Salernitana: a Fregene siglai 17 reti, ma essendo di proprietà del club, la società si aspettava un indennizzo che non arrivò. La stagione seguente, nel club che diventò Fiuggi, fu il covid a interrompere la mia marcia, quando avevo già toccato a febbraio quota dodici reti. La Salernitana è stata una gran bella soddisfazione, svolgendo anche il ritiro con i granata neo-promossi in Serie A: la speranza è di poter essere chiamato da un momento all’altro, a patto di dimostrare il proprio valore nelle categorie inferiori. Chissà…"
Strano che l’anno scorso il primo impatto con il “Bonolis” l’abbia avuto in un ruolo atipico.
"Accadde che in quel match eravamo a corto di mezzali e, vedendomi come calciatore di movimento, il mister mi chiese questo favore, peraltro non solo a Teramo, ma anche contro la Casertana di Guidi, in quella circostanza addirittura andando in gol. A scanso di equivoci, però, mi ci sono adattato: in quel caso si avverte un dispendio energetico più ampio che comporta una minor lucidità sotto porta".
Con il Foggia di Marchionni siete stati l’autentica sorpresa del girone: quali erano gli ingredienti vincenti?
"È stata una stagione esaltante per come era cominciata: la preparazione partita in forte ritardo, gli esoneri di Maiuri e Capuano, la finestra aggiuntiva di mercato per completare la rosa, le prime giornate saltate. Con mister Marchionni, nonostante fosse al primo anno da tecnico tra i “Pro”, seppur dopo una lunga carriera da calciatore, mi sono trovato benissimo: è un autentico martello, ci teneva tutti sul pezzo, ma sapeva anche unire il gruppo".
Alla prima da titolare, a Teramo, hai già pareggiato il tuo score di Seregno: quale significato gli dai?
"Per me è stata una liberazione dopo i cinque mesi passati, a Teramo sono tornato il calciatore di Foggia, soprattutto a livello di atteggiamento, anche grazie al sostegno del mister Guidi".
Le sensazioni dell’esordio davanti ai tuoi nuovi tifosi?
"Il “Bonolis” può diventare una bolgia, c’è una tifoseria attenta e passionale che ci segue ovunque: sono rimaste otto gare interne, con l’aiuto del pubblico amico non possiamo sbagliare".
Quando hai lasciato Fiuggi hai ringraziato particolarmente due compagni, Forgione e Papaserio che ora ritrovi qui. Che rapporto ti lega a loro?
"Sono le persone con cui ho legato di più, ritrovarli qui è stata una bella emozione, direi un premio per ciò che si è fatto in campo, perché nel calcio nessuno ti regala nulla. Entrambi sono ragazzi solari, ma anche i primi ad essere seri in allenamento".
Se dovessi ringraziare una persona in particolare nel tuo percorso, a chi ti rivolgeresti?
"Mio padre Pasquale prima di ogni altro. Io sono stato fortunato perché mi ha permesso di inseguire un sogno, accompagnandomi ovunque e, nonostante i suoi impegni lavorativi, c’è sempre stato. Anche lui ha tentato la carriera da calciatore, giocando nel mio paese, a Riano: era un numero dieci mancino che tutti ammiravano, ma dovendo aiutare mio nonno nel lavoro, non ha potuto approfondire il discorso sportivo. Quando mi vede giocare oggi, è raro sentire i suoi complimenti, forse è meglio così".
Che tipo di attaccante sei?
"Gioco tra le linee, spesso vengo incontro per aprire le difese avversarie, favorendo gli inserimenti delle mezzali. Mi mancano un po’ di centimetri, è vero, ma la prima rete in biancorosso l’ho segnata di testa, mi pare, e se c’è da fare a sportellate non mi tiro indietro".
A fine campionato saresti soddisfatto se…
"Se dovessimo raggiungere l’obiettivo di squadra che ci siamo prefissati, magari provando a fare qualcosa di più, anche a livello personale in termini di reti. Alla nostra tifoseria chiedo solo di esserci vicini come già stanno facendo, a sudare la maglia ci pensiamo noi".
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