Il Livorno è morto. Lunga vita al Livorno. L’agonia di una società che merita un futuro, ma che ha diritto ad un onorevole trapasso. Seconde squadre o multiproprietà? C'è solo una scelta possibile
Un adagio vecchio quanto il mondo recita: “la pazienza è la virtù dei forti”. Affermazione che, in più di un’occasione, ognuno di noi (compreso chi vi scrive) ha provato a confutare. La realtà dei fatti è che, probabilmente, non esiste assioma più veritiero se prendiamo come esempio quanto sta accadendo a Livorno. Oramai sono mesi che assistiamo, noi come appassionati e/o addetti ai lavori, alla macabra danza dei personaggi che si sono stretti al capezzale della società labronica. Dirigenti (ma quali?), presidenti (ma dove?) e azionisti di maggioranza (magari!) che da quando è stata ufficializzata la cessione del pacchetto di maggioranza del sodalizio amaranto da parte di Aldo Spinelli, non hanno fatto altro che parlare, contestarsi, offendersi, minacciarsi etc etc etc. Hanno fatto tutto, tranne una cosa. Dare un futuro al Livorno.
La prospettiva degli amaranto, infatti, ad oggi non va più in là del naso, seppur lungo, di molti dei protagonisti della telenovela andata in scena nelle stanze dell’Armando Picchi. In sintesi: Spinelli ha salvato il Livorno poco prima dello scorso Natale dopo averne quasi staccato la spina a metà novembre cedendo la medesima società alla cordata che ha dato il via al cataclisma oggi in atto. Lo stesso Spinelli, in quell’occasione, disse che non avrebbe più messo un euro per la società. E così è stato. Tanto che gli altri soci, nei giorni antecedenti a questo pezzo, non sono stati in grado di proporre una fideiussione integrativa che permettesse al club di operare sul mercato quel tanto che basta, per continuare a coltivare le speranze di una, seppur difficile, salvezza. Sei punti dalla zona tranquilla non sono pochi, ma non rappresentano neanche un ostacolo insormontabile.
Per questo motivo tale situazione fa ancor più male. Perché basterebbe davvero poco per rimetterla in piedi e dare nuova aria ai polmoni amaranto. Eppure così non sarà. A meno che non si concretizzi un vero miracolo. Sia chiaro, il Livorno molto probabilmente non sparirà come ha fatto il Trapani, ma non andrà oltre al finale di stagione. Con una retrocessione quale indegno epilogo di una storia che ha toccato anche i palcoscenici europei. Ecco che, con grande amarezza, viene quasi da dire: speriamo che tale fine arrivi presto. Non perché i colori del Livorno ci stiano antipatici, anzi. Bensì perché oltre un certo limite non è giusto soffrire. Meglio quindi mettere un punto e andare oltre. Ricominciare in modo tale da cancellare tutti i mali, tutti i colpevoli alla base degli stessi, per cercare pace attraverso nuove vie.
Ecco, dunque, che mentre il nuovo Catania di Joe Tacopina inizia a muovere i primi passi e il Livorno, come detto, arranca sugli scogli della sua costa, viene da porsi un quesito che, a mio modo di vedere, si lega a doppio filo con il tema delle seconde squadre. Ad inizio settimana Ivan Cardia, padrone di casa di queste colonne, ha sollevato nuovamente il tema legato al confronto fra seconde squadre e multiproprietà, con alcuni club di Serie C (leggi Bari e Mantova) in mano a presidenti di società oggi in Serie A (Napoli e Hellas Verona). In virtù di quanto sta accadendo oggi a Livorno credo che la seconda opzione fra quelle proposte sia la migliore. Quella da perseguire. Meglio avere più società di Lega Pro legate ad un top club di A che possa supportarlo economicamente e tecnicamente che una formazione U23 in stile Juventus, senza passato né futuro, ma con solo un presente a disposizione. Senza dubbio è “figo” avere in C società con nomi altisonanti come Juventus, Milan, Inter, Napoli, Roma e Lazio, giusto per citarne alcuni, ma come spesso viene ricordato la Lega Pro è il calcio del territorio, dei paesi e del campanilismo. Allora cerchiamo di preservarlo senza snaturarlo. Anche così si evitano situazioni come quella di Livorno. Perché se è vero che “la pazienza è la virtù dei forti”, persino i più santi, dopo un po’, si rompono i coglioni.
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