ESCLUSIVA TLP - Mi ritorni in mente: Corrado Orrico

61° appuntamento
06.07.2014 22:30 di Daniele MOSCONI   vedi letture
ESCLUSIVA TLP - Mi ritorni in mente: Corrado Orrico
TMW/TuttoC.com
© foto di Luca Maggiani/TuttoLegaPro.com

Nel calcio, vincere, come diceva Boniperti - storico presidente della Juventus -, è l'unica cosa che conta. I tifosi si ricordano di te, ti esaltano e ti vogliono bene. Viceversa, ti basta qualche domenica storta e il genio che eri, si capovolge con epiteti come incapacità e ci fermiamo qui per non scendere nello scurrile.

Corrado Orrico è ricordato dai tanti come l'allenatore che ha fallito con l'Inter. Per molti uno stregone o uno scienziato, per altri un rivoluzionario che in un paese anchilosato al "piuttosto che niente, meglio piuttosto" non poteva che fallire.

Nella sua esperienza nerazzurra ha provato a dare alla Beneamata un'idea di calcio diversa, fondata sul gioco come base per vincere e non solo sulla distruzione di quello altrui. Non tutti l'hanno compresa. Se pensate che Orrico abbia abbassato la testa, vi sbagliate di grosso. Gli anni passano, ma le sue idee, come Don Chisciotte, non le cambia.

Tanti anni di calcio in provincia, con una mezza esperienza in A con l'Udinese nei primi anni '80, mentre i riflettori su di lui si accendono grazie all'esperienza alla Lucchese, dove tra il 1989 e il 1991, crea una squadra capace di arrivare ad un passo dalla A: "Se non avessimo avuto gli infortuni di uomini chiave di quella squadra, a quest'ora eravamo dritti in massima serie". Tutti i giornali ne parlano, si crea il fenomeno "Corrado Orrico".
Al punto che Ernesto Pellegrini, allora presidente dell'Inter, se ne innamora, vedendo nella sua figura l'alter ego di ciò che è stato l'avvento di Arrigo Sacchi per i cugini del Mlan.

Attento alla sua immagine morigerata, Orrico blocca sul nascere le domande sul paragone tra lui e l'omino di Fusignano: "Arrivo all'Inter con uno stipendio da operaio specializzato, per sentirmi in sintonia col partito che ho sempre votato".

Teorico del calcio a zona, innamorato dell'Honved Budapest e dello squadrone che fu negli anni '50, con i vari Hidegkuti e Puskas, inizia ad allenare molto presto: a 26 anni, capitano e allenatore della Sarzanese (dal 1966 al '69), capisce che il calcio visto dalla panchina ha un sapore diverso. Lui si considera un predestinato di questo ruolo e, fatto sta, riesce a regalarsi parecchie soddisfazioni: sei campionati vinti, di cui tre in C e altrettanti nei dilettanti.

Negli anni '70 idea la "gabbia". Una struttura creata per ottimizzare l'intensità che il suo gioco richiedeva. Quello che oggi è la routine, Orrico lo aveva studiato e messo alla prova con qualche decennio di anticipo.
Un precursore dei tempi, in un paese immobile.
Per Orrico il calcio è fantasia, voglia di sperimentare, studio, non fermarsi mai al successo di oggi, ma avere come obiettivo il miglioramento per divertire e divertirsi. Tutte idee, per quanto semplici all'apparenza, inapplicabili in un paese dove il massimo dell'eversione lo si trova nelle parole di Buffon sui "giovani che devono arare i campi prima di arrivare in Nazionale".

La sua ultima panchina è stata quella del Gavorrano, due stagioni fa, quando a poche domeniche dalla fine la dirigenza mineraria ha pensato alla sua figura per salvarsi. Arriva ai play out, ma dopo aver eliminato l'Hinterreggio, in finale perde contro il Rimini.

Di solito, per chi legge queste interviste, amiamo disegnare su queste pagine un tratto distintivo del carattere del personaggio che si concede in esclusiva ai microfoni di TuttoLegaPro.com. Corrado Orrico si è preso la scena e da vero istrione ha fatto tutto lui. Chi ama il calcio non può non leggerla.

Dopo l'esperienza al Gavorrano è in attesa di un'altra chiamata o l'età le impone pensieri diversi dal fare l'allenatore?

"Al momento sono alla finestra. Mi è arrivata qualche proposta ma non era stimolante. Vede, sono un allenatore di una certa età e non bramo per una panchina. Se dovesse arrivare, meglio".

Che idea si è fatto finora del Mondiale?

"E' una manifestazione dove emergono giocatori di maggior classe. C'è un ritmo violento, i contrasti sono molto duri; penso di non aver mai visto un campionato così dinamico. Come sempre chi ha i giocatori di maggior classe alla fine emerge. Sembra quasi che le squadre attendano, giocando un calcio quasi scolastico, in attesa della fiammata dei propri giocatori di maggior classe".

E l'Italia?

"Sono otto anni ormai che c'è un declino evidente. Anche in Germania nel 2006 non avevamo prodotto chissà quale calcio, però almeno lì siamo arrivati in finale. Cerco di guardare l'aspetto prettamente utilitaristico della cosa. In Brasile non si è visto proprio nulla e come sempre, quando le cose van male, vengono fuori le beghe e la frittata è fatta".

Quale il suo parere sul codice etico?

"Penso che peggio del codice etico c'è stata la teoria tutta prandelliana che i giocatori potessero giocare palleggiando, il che è una comica, oltre ad essere un fatto antistorico. Prandelli diceva che loro facevano il possesso palla, una cosa che non è mai stata nelle corde della Nazionale italiana. Ha inoltre tolto l'idea che ci fosse la porta come fine ultimo per la produzione di gioco, andare ad aggredire e tirare il più possibile. Facevano possesso, ma bisogna chiedere all'allenatore quale fosse lo scopo di tutto questo palleggio".

Non crede che parte della responsabilità ce l'abbia anche la stampa stessa, capace di sopravvalutare giocatori che all'apparenza paiono fenomeni e alla fine si rivelano tali solo sulla carta?

"Senz'altro. Le colpe di Prandelli sono poche e gliele ho elencate. Ha voluto creare un alone per proteggere un gruppo che era scarso. Mi chiedo come si faccia a non convocare uno come Florenzi e portarsi in Brasile uno come Thiago Motta. Uno come quest'ultimo può essere utile per un campionato, dove i valori escono alla lunga, ma non in una competizione come il Mondiale dove la corsa, il dinamismo, si devono riunire tutte insieme in poco più di un mese. Non abbiamo convocato i giocatori di maggior dinamismo, quelli utili a farci disputare delle battaglie, esaltando il nostro spirito. Se poi vogliamo allargare il discorso, penso a Balotelli e Cassano e mi vengono in mente Luca Toni e Totti. Il tutto in un quadro di pochezza generale che emerge e impone ai dirigenti del calcio italiano, di dare una svolta e di incidere in qualche maniera sui campionati e sugli istruttori".

Lei nel suo ragionamento ha parlato di giocatori dinamici, dimenticando, non sappiamo quanto volutamente, dei giocatori di classe. Campo quest'ultimo dove negli ultimi anni stentiamo a produrne.

"Aspetti un attimo. Facciamo prima un passo indietro. Dietro la parolina "classe" sono racchiuse varie caratteristiche, altrimenti qui stiamo parlando di aria fritta. Sono diverse le componenti di un giocatore di classe: dinamismo, tecnica, aspetto fisico, capacità agonistiche. E queste non le abbiamo. Però abbiamo giocatori di straordinaria tecnica, come Totti ad esempio. Ancora oggi, con uno come il romanista puoi fare una prestazione di larga intensità agonistica. E pensare che se tieni Totti fresco sulla trequarti, può sempre inventarti qualche cosa: è dotato di tiro da lontano, ha piedi sapienti, ha gli occhi dietro. Un altro giocatore è Luca Toni. Con tutti i limiti tecnici che può avere questo attaccante, ha fatto 18 gol e non c'è stata una partita dove non combattesse fino al novantesimo con quello spirito che serve in un torneo come il Mondiale. Vedendo Balotelli sembrava un tacchino freddo. Non abbiamo dei fuoriclasse e va bene, ma almeno selezioniamo quelli che sanno fare la guerra. Quelli come Balotelli o lo stesso Cassano, ma non solo loro, sono l'ipotesi del fuoriclasse. Ha capito: l'ìpotesi! Questi a trent'anni con la testa che hanno, saranno sempre dei giocatori promettenti che avranno un futuro anche a quell'età. La maturazione o avviene subito oppure lasciamo stare. Lo stesso Cassano è andato peggiorando, non curando in particolar modo l'aspetto fisico: le posso dire che i primi anni Cassano era molto più decisivo di oggi. Stesso discorso si può fare a Balotelli che, con i ragionamenti che fa, si ritroverà all'età che ha oggi Cassano ad essere un possibile fuoriclasse. E in attesa che questi esplodano, se mai lo faranno, mi porto due ex campioni del mondo come il romanista e l'attaccante del Verona che di certo non hanno paura della battaglia e sapendo che dovranno alternarsi con gli altri, sono due carte da giocare anche parzialmente durante una partita. Poi ci sono le storie del possesso palla che sono comiche, ridicole e lo stesso codice etico. Bisogna stare attenti a usare paroloni l'etica. Nel calcio mal si addice quella parolina lì. Non ne ho vista mai tanta di etica in tanti anni che frequento questo mondo. Bisognerebbe leggere Kant, anzi consiglio una lettura del filosofo tedesco all'ex Ct azzurro".

Cosa diceva Kant sull'etica?

"Tra le tante cose intelligenti che ha detto, Kant sul tema, una gliela riassumo in breve: l'uomo è stato creato in un legno storto. E' inutile pensare di raddrizzarlo, il legno rimarrà storto. L'uomo è predisposto all'errore, al peccato, tendendo a comportamenti tollerabili da tutti. Ecco l'etica kantiana: parte dal presupposto che se un albero è storto, non lo puoi snaturare cercando di metterlo dritto".

Ma esiste un modulo vincente o è l'organizzazione della squadra a far vincere le partite?

"Guardi, uno degli allenatori più forti degli ultimi trent'anni, Louis van Gaal (attuale Ct della nazionale olandese, ndr) in alcune partite ha giocato a cinque in difesa, come si faceva negli anni '50-'60 in Italia. Perché le dico questo, si dirà lei. Perchè é il modulo conta e non conta, quello che serve è lo spirito e i principi di gioco che ogni giocatore mette in campo. Per principi di gioco intendo portare la palla, fare una corsa in meno nei recuperi, non stringere verso l'avversario, fare densità in modo intelligente. Questi sono i fulcri del gioco del calcio e nell'Olanda li vede tutti. Un capolavoro tattico c'è stato, da parte degli Orange, contro il Messico. Ad un certo punto ha giocato a cinque in difesa, tenendo bassi gli esterni. Ma non è solo questo: quando una squadra riesce all'88' non solo a pareggiare la partita, il che sarebbe stato un miracolo, ma a vincerla, vuol dire che ha lo spirito giusto e ha i concetti per come si affrontano le partite. Nell'ultima partita contro l'Uruguay, i giocatori dell'Italia sembravano ubriachi. Non c'era uno che facesse uno scatto senza palla, uno che si buttasse negli spazi per concludere. Non abbiamo fatto un tiro in porta".

Non riusciamo a produrre elementi di un certo livello, di una qualità superiore alla norma.

"Li abbiamo avuti anche in anni recenti, vedi i vari Totti, Del Piero o la stessa Nazionale che in Argentina, ai Mondiali del '78, era fortissima. E' un discorso generazionale. Adesso fatichiamo un po' a tirarli fuori, ma quello che mi preme farle capire è un'altra cosa".

Prego.

"In Italia non siamo abituati a far le cose pragmatiche, non sappiamo programmare. Proprio quando ci mettiamo in testa di fare una programmazione, quello è il momento in cui avvengono i pasticci peggiori. La stessa Olanda ha una storia sui vivai, per esempio l'Ajax, che dovremo studiare. Loro vendono i propri prodotti e ne fanno strutture che noi ce le sogniamo. Alcune sono faraoniche e sono un'offesa alla povertà. E stiamo parlando di un paese che è quasi la metà dell'Italia. Ci sono migliaia di campi dove i giovani possono crescere in un certo modo. Quando vendevano giocatori come Snejider, Van Persie o Robben, hanno guadagnato decine di milioni di euro. E hanno migliorato le loro strutture. E' una questione di mentalità. Hanno un'organizzazione tecnica e di strutture di cui parleremo ancora tra cinquant'anni. Per chiudere il discorso: non dobbiamo fare i pragmatisti, perché non siamo buoni. Dobbiamo togliere un po' di vecchiume, come hanno fatto in politica e mica l'hanno programmato: è arrivato un "bamboccio" da Firenze e ha ribaltato la situazione politica italiana, avendo dei concetti per niente italici. Rimanendo nel calcio: sento che si parla del Presidente della Lega Dilettanti come possibile nuovo numero 1 della Figc al posto di Abete. Ma io dico: ha settant'anni, quali strutture potrà rinnovare uno così? Non me ne capacito. Se vogliamo rovesciare le situazioni, deve alzarsi uno come Rivera e dire: la prendo io in mano la patata bollente. Uno onesto che ci ha sempre messo la faccia, conducendo anche da giocatore battaglie importanti. E non mettiamoci in testa di programmare, deve avvenire tutto in maniera inconscia, naturale. Prandelli è il classico prodotto dell'Italia. L'italiano è così, come l'ex Ct della Nazionale. Gli va dato atto di aver fatto un gesto poco italico: si è dimesso".

Nella situazione di crisi del calcio italiano, lei non crede che questo sia il momento dei gattopardi, quelli "del cambiare tutto per non cambiare nulla"?

"E' possibile, è un'invenzione tutta nostra. Non è di Tomasi di Lampedusa. Lui l'ha scritta magnificamente. Il nobile siciliano non ha fatto altro che mettere su carta situazioni che sono italiane per antonomasia. Vengono fuori dal risorgimento in poi. Tutto deve cambiare per non cambiare nulla. Si arrangeranno, come sempre".

Lei si ritiene un anticonformista?

"E perché dovrei esserlo? Quando uno si applica nel proprio lavoro, cercando di migliorare. Il conformista è uno che è conforme agli impegni della sua attività. Gli anticonformisti sono quelli che dovrebbero fare un lavoro e non lo fanno, gestendo le situazioni in forma politica all'interno della propria squadra. E quindi lo sono anche mentalmente, giocando un calcio 4-4-2 e tutto finisce lì. Essere conformi alla propria attività significa non accontentarsi mai, allenarsi al meglio, andare oltre le proprie possibilità come tendenza".

Si può ancora inventare nel calcio?

"Coloro i quali hanno una funzione critica verso il calcio non ne capiscono le varianti. In ogni campionato, colgo il calcio come essenza. Non il tiro o il rigore, ben altro. Io noto che questa essenza si arricchisce sempre di più e fa sì che il calcio di oggi sia nettamente diverso rispetto a quello che giocavo io cinquant'anni fa. Il calcio cambia da sé anche contro la volontà di chicchessia. Oggi le squadre più piccole vengono in area e vogliono fare punti, non interessa più nulla di giocare a scacchi, con movimenti studiati e stereotipati. Il calcio di oggi ha scoperto la relatività".

Scusi, cosa c'entra Einstein?

"E' un concetto fisico. Einstein aveva dimostrato a suo tempo che spazio e tempo erano un tutt'uno. E la velocità e il tempo sono strettamente legate al mezzo in cui ti trovi. Noi non ce ne accorgiamo, ma la terra ha una velocità abbastanza forte. Se io salgo su un'astronave e viaggio per dieci anni e lei mi aspetta sulla terra, quando io ritorno lei sarà invecchiato di dieci anni, mentre io lo sarò, ma di un terzo rispetto a lei. Il fatto che il tempo è relativo rispetto alla velocità e il calcio non è più stereotipato. Ora è imprevedibile. I giocatori di oggi hanno come principio fondamentale del loro gioco l'imprevedibilità e difatti non corrono in maniera lineare, ma vanno zigzagando per il campo".

Si dice che lei ha pagato per le sue idee politiche.

"Premesso che non me ne frega niente, ma io non ho idee politiche, ho idee sociali. La politica in Italia non merita nessuna attenzione. Una volta, le persone come me venivano definite anarchici, i quali erano contro lo strapotere, non tanto dello Stato, che quando è giusto deve esserci. Sono i personaggi che fagocitano lo Stato e lo fanno per arricchirsi e per raggiungere i propri scopi. Ma non lo faccio tramite un partito politico".

Una delle accuse che le muovono i suoi detrattori è la testardaggine.

"Quale testardaggine, al massimo la supponenza. Se sono testardo, lo faccio perché vado avanti con le mie idee, non per compartimenti stagni".

Si dice che il ruolo dell'allenatore è sempre in bilico tra gloria e fallimento: se vince, merito della squadra, viceversa se perde è tutta sua la responsabilità.

"E' l'uso che ne fanno i dirigenti delle figura dell'allenatore per coprire se stessi. Ho apprezzato molto l'atteggiamento di Prandelli nelle sue dimissioni. Quando viene esonerato un allenatore, la sconfitta è dei dirigenti. Nel momento in cui un responsabile di una società decide di dare le chiavi della propria struttura ad una persona terza, deve conoscerla a fondo, di verificarne tutte le qualità, se convince lo si assume, andando spalla a spalla, sapendo che una squadra può avere dei momenti di flessione".

Il calcio in provincia è più umano?

"Ho fatto la gavetta per lunghi anni, però devo dire che il calcio in provincia è più innovativo della A. Ho visto partite in C o nei Dilettanti, giocate in modo perfetto dal punto di vista tattico, con squadre ben messe in campo. Mentre in A, la gestione del gruppo è più politica, quasi cooperativistica, con i giocatori più forti che influenzano le scelte del club. Non sono contrario ad un dialogo tra allenatore e i big della squadra, basta non miscelare un esplosivo e farlo diventare acqua fresca. A meno che non vuoi fare tutto di testa tua e ne paghi le conseguenze".

Passiamo ai protagonisti: lei ha parlato di "pigrizia mentale" da parte dei giocatori. E' un loro difetto.

"Ma non è solo il loro. E' un difetto nazionale. La pigrizia è un limite. Tutto il mondo è sotto l'influsso del vento di ponentino. Mentre noi mediterranei abbiamo il levantino. Un vento che affloscia, toglie le forze. E forse è una conseguenza biologica e geografica".

Lei con la Lucchese in quei famosi tre anni, dal 1988 al 1991, ha vinto un campionato di C e una Coppa Italia di categoria. Parlando della sua esperienza con i rossoneri ha lamentato i troppi infortuni che vi hanno impedito di arrivare in A.

"Siamo arrivati quinti a due punti dal quarto posto, più di quello non potevamo fare. Gli infortuni sono stati un vero problema: lo stesso Simonetta che se non si fosse infortunato poteva giocare in A. Lei pensi che le prime sei partite aveva segnato cinque gol. Non si fosse strappato il tendine d'Achille dove sarebbe arrivato? L'anno prima in C ne aveva fatti diciassette. Si è infortunato Monaco, fermo altri tre mesi e mezzo. Per un mese e mezzo Donatelli, un centrocampista molto forte e bravo tecnicamente".

Se lei fosse arrivato in A con la Lucchese sarebbe cambiata la sua carriera. Ci pensa ogni tanto?

"Ma cosa vuole che me ne freghi. Io conservo il ricordo di un grande calcio e di una squadra che giocava in maniera perfetta. Siamo andati a Verona - e gli scaligeri quell'anno vinsero il campionato - e abbiamo dato loro una lezione di calcio".
 
In un'intervista ha detto: "Come calciatore non ero né bravo, né facile da gestire, spero di non dover mai allenare uno come me". L'ha mai incontrato uno così?

"No, fortunatamente no. Quando c'erano dei giocatori che volevano fare i galli, li mettevo subito in riga, non accettando comportamenti che andassero a danneggiare un gruppo. Da allenatore sono stato da sempre sensibile a questi temi, visto che il nostro ruolo ci impone di tenere a bada uno spogliatoio che, quando va bene, è fatto da venti-venticinque persone. La disciplina, in fondo, non è altro che il rispetto dell'altro. Ma dovevano rispettarla tutti, me compreso, che arrivavo sempre un'ora prima al campo".

La forza di quella Lucchese fu la costruzione di una rosa composta per la maggior parte, da elementi che l'anno prima facevano la panchina in C.

"Alcuni sì, ma quello non è un merito. Ci sono uomini che davanti ad un'organizzazione incerta e a dei compromessi nel gruppo, tendono a svilirsi. Mentre ce ne sono altri che, posti dinanzi ad un quadro netto e chiaro e con un obiettivo comune da perseguire, riescono a dare più di quel che potrebbero in condizioni normali".

L'utima domanda: come mai ha fallito con l'Inter (stagione 1991/92)?

"Se essere quinti in classsifica con una partita in meno, significa fallire, allora mettiamola come dice lei: ho fallito. Ho deciso di andarmene perché c'erano situazioni che non mi piacevano. Sono una persona che ha ancora dei princìpi solidi a cui si áncora per andare avanti".

Prossima intervista per "Mi ritorni in mente": domenica 20 luglio 2014.