La crisi che ha trasformato il calcio. Tutti contro tutti, quanti cortocircuiti verso la ripresa. L’algoritmo riscrive le classifiche. Decreto rilancio e riforma, la grande illusione

01.06.2020 01:00 di  Ivan Cardia  Twitter:    vedi letture
La crisi che ha trasformato il calcio. Tutti contro tutti, quanti cortocircuiti verso la ripresa. L’algoritmo riscrive le classifiche. Decreto rilancio e riforma, la grande illusione
TMW/TuttoC.com

Due mesi fa scrivevo che il calcio è a rischio. Tra pochi giorni, il calcio riparte. Tutto bene? Non proprio, perché il pallone rotolerà su un terreno insidioso e forse questo non è ancora chiaro a tutti. La stagione che ripartirà sarà qualcosa di molto diverso da quello a cui siamo abituati, e il virus c’entra nelle premesse, ma non nelle loro conseguenze. In un certo senso, questa crisi ha trasformato il calcio che vedremo. O magari ne ha mostrato il vero volto, e sul lungo periodo questo può essere un problema.

Più azienda che sport. Più soldi che passione. È questa la fotografia: il calcio va avanti perché deve, non certo perché vuole. Si appresta a chiudere una stagione già andata col rischio di sacrificarne un’altra, la prossima. E forse non solo quella. È un grido di allarme eccessivo? Mi auguro di sì. Il presidente Gravina ha vinto la battaglia, su questo non vi sono dubbi. L’ha vinta per l’azienda che rappresenta e che, dal punto di vista economico, deve mandare in qualche modo avanti. Il punto è se il calcio vincerà la guerra. Sarà difficile appassionarsi a questo spettacolo a cui non siamo abituati: in piena estate, quanti decideranno di rientrare dal mare un po’ prima, o di non concedersi una serata con gli amici, per tornare a guardare un Bologna-Cagliari di metà luglio senza alcuno stimolo di classifica? Quanti infortuni vi saranno da qui all’estate? Quanti ve ne saranno all’inizio della prossima stagione, di fatto senza preparazione estiva? Quanto terreno perderemo sul mercato rispetto al campionato francese? Sono domande a cui non so rispondere, ma che mi sembrano sottovalutate quando si dice che bisogna andare avanti comunque. E le mascherine, i tamponi, la quarantena sono quasi uno sfondo. L’emergenza sanitaria può anche essere un ricordo, ma vale la pena mettere a rischio il domani per difendere l’oggi? E quale sarà la risposta degli appassionati, a un calcio che va avanti non per loro ma perché altrimenti i suoi conti non si reggono in piedi?

In questo quadro, colpiscono i cortocircuiti del “nostro” mondo. Tutti più o meno celati. In Serie A volano gli stracci e poi si vota all’unanimità. In Serie B non si capisce bene chi possa ripartire e come. In Serie C tutti d’accordo finché non arriva la doccia fredda della FIGC e dall’alto calano gli stracci da tirarsi di cui sopra. Vecchie alleanze si sfaldano e nuove, incredibili e inimmaginabili, se ne formano. La voce va alla ripresa del calcio che è terapia e passione e tante altre cose belle, la testa va alla politica: se è questa la priorità, alzo davvero le mani perché sono un sempliciotto che, mentre la barca affonda, penserebbe a tenerla in qualche modo a galla anziché discutere su chi sarà il capitano una volta giunti in porto.

L’ultimo capro espiatorio da gettare in pasto al circo mediatico è l’assocalciatori, che porta avanti una battaglia francamente comprensibilissima. Fuor di demagogia, è un sindacato che difende i suoi lavoratori: che altro dovrebbe fare? Tommasi ha sbagliato alcuni passaggi (se i calciatori non sono quasi mai stati ascoltati finora qualche responsabilità ce l’avrà pure), ma in questo momento solleva problemi che è incredibile nessun altro faccia notare. Giocare alle 16,30 a luglio era pura follia. E non ci tirate fuori i Mondiali USA. Una competizione completamente diversa, con tempi più serrati e obiettivi ben diversi. Altrimenti spiegateci perché i calciatori di Bologna e Sassuolo di cui sopra (sono esempi, nulla di più) si dovrebbero sfiancare a metà pomeriggio per una manciata di tifosi davanti alla tv e nessun vero motivo di andare oltre uno scialbo 0-0. Sui contratti, tutto tace: in Serie A ne scadono oltre 100 il 30 giugno, in Serie C sono quasi 500.  Non c’è mezza idea su come, quando, perché rinnovarli. E però i calciatori sono privilegiati che devono fregarsene di tutto in ragione di questo status. Fa nulla se non tutti sono Cristiano Ronaldo: se tiri calci a un pallone sei comunque un miliardario e meriti di essere dileggiato perché sollevi un sopracciglio sul giocare in condizioni impossibili.

In questi cortocircuiti, organizzativi, informativi e chi più ne ha più metta, ovviamente ci si capisce ben poco. E così fa rumore lo stesso Gravina quando parla di un algoritmo per scrivere la classifica in caso di stop definitivo. Applicato alla Serie C, vuol dire che playoff, playout e retrocessioni (teniamo da parte le promozioni, dove in teoria il discorso sarebbe abbastanza semplice se non ce lo vogliamo per forza complicare) non si decideranno in base alla classifica attuale, con squadre che hanno più partite o meno partite. Una previsione banalissima, giustissima, che in questo caos getta addirittura sconquasso. Non so come funzionerà questo algoritmo (probabile non si distacchi poi molto da quello già previsto dall’assemblea di Lega Pro), per questo aspettiamo tutti il consiglio federale dell’8 giugno. È solo incredibile che ci si sorprenda della sua esistenza. A proposito: tutti nel calcio sanno da tempo che la data è quella, Spadafora l’altro giorno ha parlato del 4. Semplice lapsus o siamo davvero a questo livello di incomunicabilità tra chi ci guida?

L’8 giugno, per la verità, è anche fin troppo lontano, almeno per la terza serie. Ufficialmente, la stagione regolare non è ancora conclusa e ci sono tante, troppe squadre ancora nel limbo. Al netto di casi eclatanti (le undicesime dei gironi A e C, che dovrebbero richiamare e far allenare i propri giocatori senza certezze), il vero problema resta quello legato ai contratti in scadenza: qualcuno ci marcia, certo. Ma molti altri con grande onestà non sanno che pesci pigliare e intanto il tempo passa. Quanto ai playoff “a pagamento”, poi, ne ho scritto già di recente: non mi entusiasmano per niente, meglio sarebbe fermarsi qui. Chi non se li può permettere non dovrebbe fare calcio? Mica tanto, stiamo parlando di spese completamente impreviste, oltretutto su tempi molto più lunghi. Basterebbe guardare la Serie A: non ci fossero i diritti tv da incassare, almeno 7-8 squadre su 20 non ci penserebbero neanche a ripartire, perché avranno difficoltà a sostenere i costi e non hanno strutture adeguate in caso di quarantena di gruppo. Figuriamoci in Serie C. Se poi la tesi è che debbano andare avanti i ricchi, allora si dovrebbe avere l’onestà intellettuale di non emozionarsi mai più per le “favole” del pallone. Ricordandosi sempre che la ricchezza è un concetto molto relativo, specie nel calcio.

Un passaggio finale sulla grande riforma. O la grande illusione. La B a 40 squadre continua a sembrarmi un’idea buona per spartirsi quattro spiccioli (forse) e con pochissime ragioni a livello sportivo, ma non è questo il punto. Le riforme, se ci saranno, le racconteremo con la dovuta imparzialità, semmai evidenziandone i tratti meno convincenti. Il fatto è che nel decreto rilancio si parla della prossima stagione, non di quella dopo. Cambiamenti stabili del format devono seguire le regole federali, non il binario ultra-rapido previsto per fronteggiare l’emergenza: vogliamo davvero spaccare in due il nostro movimento, in questo momento, per due lire e una manciata di voti in più? Poi possiamo discutere delle 100 squadra professionistiche: sono tante, è vero. Ma bisogna anche guardare perché sono tante, e perché ne falliscono ogni anno. Non è una difesa d’ufficio dei presidenti di Lega Pro, che potrebbero ragionare più da imprenditori ma a cui quasi mai manca la passione. È che qui bisogna essere seri, proprio perché è un’azienda e non un gioco: andiamo a studiare i fallimenti degli ultimi anni, quanti sono nati in Serie C e quanti invece sono stati ereditati, magari dalla Serie B. Poi riprendiamo a parlarne, perché una riforma serve, ci sono pochi dubbi. Ma forse deve nascere da una costituente e non da una rivoluzione.