ESCLUSIVA TLP - Corrado Colombo appende le scarpette al chiodo: "Quella Dieci sulle spalle e una carriera a mille all'ora: ma ora si guarda al futuro..."

Di Maradona, Baggio, Del Piero o Messi ne nasce uno ogni tanto…o meglio: ne nasce uno, stop. Perché ogni singolo campione citato è storia a sé, è storia irripetibile, ognuno con delle sfumature più o meno marcate che la Numero 10 ha: quel numero, oggi ribattezzato El Diez (come se la pronuncia straniera aggiungesse valore a una cosa che ha già un valore intrinseco notevole), racconta sempre un qualcosa di speciale, raccoglie i sogni di tutti i bambini che da grande vogliono fare i calciatori.
Esattamente come voleva Corrado Colombo, un Dieci che – come gli altri - ha una storia a sé: forse il più atipico del calcio, uno che piace o non piace, e che ha fatto di questo il suo marchio di fabbrica. A Colombo interessa essere vero, non quello osannato in ogni stadio senza la minima antipatia, anche quella fa parte del gioco e lui lo sa bene. Anche perché quel suo essere, tra genio e sregolatezza, gli ha forse fatto raccogliere meno di quello che avrebbe meritato, ma gli ha permesso comunque di imporsi nel calcio e di essere ricordato per quello è: semplicemente Colombo.
La carriera da calciatore, per il classe ’79, si è conclusa pochi giorni fa con la maglia della Pistoiese, e proprio lui, quel quasi 40enne con il fisico e l’entusiasmo di un ragazzino, quel linearmente controverso attaccante, si racconta ai microfoni di TuttoLegaPro.com: un viaggio nella sua carriera, dalle origini fino a…
Partiamo dalle origini, che non si intende la Primavera o i settori giovanili, ma quello che c’è ancora prima: come nasce l’idea di diventare calciatore?
“Indubbiamente quello è un po’ il sogno di tutti i bambini, lo vedo anche con mio figlio che a quattro anni è già fissato con il calcio, e, dai racconti di mio padre, anche io ho presto avuto questa passione, anche se proprio da piccolo amavo i motori. Poi però ho scoperto la Juve e Michel Platini, guardavo tanti suoi video, e a quel punto ho iniziato a giocare all’oratorio del mio paese, Ruginello, dove però non c’era la squadra di calcio. Ma i miei, che avevano un bar, su suggerimento di un signore che aggiustava le macchinette del caffè, mi mandarono a giocare a Roncello, poi intorno ai 9/10 anni mi prese l’Atalanta, anche se all’inizio non c’era la squadra della mia età quindi giocavo con quelli più grandi. Ricordo ancora i lunghi viaggi sul pulmino della squadra, ci ho passato tanti anni, anni di sacrifici ma anche di divertimento”.
“Anni di sacrifici” hai detto: la vita del calciatore sia tutta rose e fiori…
“Io ho visto tanti ragazzi che su quel pulmino ci hanno speso la loro gioventù e poi non sono mai arrivati. E non è semplice rinunciare alle serate con gli amici, alle partite di calcetto, non è facile andare via di casa quando si è bambini. Inoltre non bisogna trascurare la scuola: io ho preso il diploma di ragioneria, i miei hanno sempre pensato prima di tutto alla scuola. Alle volte mi hanno fatto pochi complimenti, ma li ringrazio per questo, perché mi hanno aiutato a crescere con sani principi ed educazione. Basta pensare a quando giocavo nell’Atalanta e vinsi lo scudetto Primavera, segnando una doppietta: la prima cosa che mi disse mio papà quando lo chiamai per avvisarlo fu che di li a breve avevo l’esame di maturità”.
Una sorta di stile Juventus! E poi il mito di Platini…
“Si, ho anche la foto e la maglia di Platini. E poi da sempre la Juve, con un aneddoto su un uomo prima che un campione, Alessandro Del Piero. Quando ero all’Atalanta, ricordo che in 15 giorni giocammo Coppa Italia e campionato contro la Juve, e io, tramite un compagno, feci sapere a Del Piero che volevo la sua maglia, ma nella gara di andata di Coppa non c’era. Ci trovammo così in campionato, e lui si ricordò della richiesta perché quando Doni gli chiese la maglia lui disse che l’aveva promessa a me, ma a fine partita, quando andai agli spogliatoi non lo vidi, degli steward mi impedirono di arrivare a quello dei bianconeri. Solo quando eravamo al pullman ci incrociammo, e lui mi chiese se mi avessero dato la maglia: quando gli dissi di no tornò indietro a riprenderla e me la consegnò. Il numero uno”.
No, il numero 10, come Colombo. Cosa vuole dire per te il Dieci?
“Tutto. Basta pensare che i bimbi quando iniziano a giocare vogliono il 10. E’ fantasia, divertimento, classe: in queste tre parole è racchiusa l’essenza del numero”.
Ma veniamo adesso all’esordio nel calcio dei grandi, che avviene sì con l’Atalanta, ma ti vede anche subito protagonista con la Pistoiese, dove poi hai chiuso la carriera di calciatore.
“Si, l’esordio con fu con la maglia del club bergamasco, ma io ero giovane e davanti c’erano tantissimi attaccanti più esperti, anche se devo dire che da gennaio in poi qualche spazio in più riuscii a ritargliarmelo, e per poco non conquistai la promozione in Serie A, che in quella stagione non avvenne. Rimasi comunque all’Atalanta, l’anno dopo feci anche un assist di tacco a Caniggia, e il Lecce mise gli occhi su di me: ma alla fine mi mandarono a Pistoia”.
Dove appunto hai avuto la tua ultima esperienza di calcio giocato prima di appendere le scarpette al chiodo: ma Colombo ha veramente smesso di giocare?
“(Ride, ndr) Devo essere onesto, l’idea era maturata da un po’, poi con mister Atzori si è creato un rapporto bellissimo tanto che ero indeciso se fare un passo indietro e continuare, ma ho poi capito che questa sarebbe stata la conclusione migliore”.
Scelta razionale quindi. Pensi che il calcio ti abbia pertanto permesso di crescere, negli anni, anche come uomo e che quindi la carriera tua abbia influenzato il tuo essere?
“In realtà è il Colombo uomo che ha influenzato la carriera! Io son spesso andato ad annate, posso anzi dire che ho fatto tutto al contrario degli altri, la gavetta me la son fatta dai 32 ai 38 anni, ma di sicuro c’è che non mi sono mai snaturato: le vie di mezzo non mi piacciono, con me il grigio non esiste, o è bianco o è nero. Poi magari gli allenatori vedevano che ero bravo, ma qualche litigata magari me la sono fatta…”.
A esempio con chi?
“Con Vavassori, tecnico che ha la mia massima stima, non ci fu proprio una litigata vera, ma un aneddoto su di lui c’è: quando ancora ero all’Atalanta, dopo una gara con l’Inter, mi lamentai in conferenza per il poco impiego, ma il mister non disse nulla, ma la volta dopo mi fece giocare di più e segnai il 2-1 per noi nella gara contro il Torino. Ma con Gentile in Under 21 fu un’altra storia: io volevo giocare, ma lui vedeva altri giocatori. Una volta mi vide al cellulare sul pullman, cosa vietata, e mi disse di mettere via il telefono, ma io, senza dargli ascolto non lo considerai, e mi giocai la convocazione con la Nazionale. Che poi perse l’Europeo…”.
(Ridiamo, ndr) Oltre alla Nazionale, c’è anche l’esordio in Coppa Uefa: come hai vissuto quel momento?
“Al tempo mi sembrava tutto normale, alla fine mi aveva comprato l’Inter e a tante cose neppure ci facevo caso. Se avessi fatto più gavetta probabilmente avrei avuto più rabbia, oltre poi al fatto che a 18 anni troppo spesso si è presuntuosi: questo non vuol dire che non ho lavorato duro, ma sicuramente avrei apprezzato di più molte cose”.
Cose che magari hai apprezzato quando poi sei sceso di categoria e ti sei confrontato con un calcio ben diverso da quello cui eri abituato: come è stato vivere gli anni della Serie D e della Lega Pro?
“E’ vero, dopo l’addio con lo Spezia, che mi aveva un po’ fatto male, ho visto un calcio diverso, ma mi son sempre divertito, e per me questo è l’importante. Sembravo giunto al capolinea, ma quando si pensa che sia morto, risorgo sempre!”.
Paragone illustre… (ridiamo, ndr)
“Paragone a parte, diciamo che quando ho un pallone tra i piedi torno bambino, e davvero mi diverto”.
Di sicuro comunque sei risorto dopo che hanno provato ad affossarti con le accuse in relazione al calcioscommesse: ti ha cambiato quella vicenda?
“No, per niente, io sapevo di essere innocente, e in quel periodo ho avuto accanto a me, oltre alla mia famiglia, anche un gruppo di straordinari ragazzi, quelli che hanno portato il Tuttocuoio dalla Serie D al calcio professionistico. Certo, è stato brutto perché son state scritte tante cattiverie, paginate sui giorni, il tourbillon era incredibile, ma io alla fine ho dimostrato la mia innocenza: ho prima preso tre mesi di squalifica per omessa denuncia quando invece in quei casi il minimo ammonta a sei mesi, poi sono stato proprio assolto”.
Come mai, alla fine, la scelta di ritornare alle origini e chiudere la carriera con la maglia arancione?
“Lo scorso anno, durante il match tra Pistoiese e Tuttocuoio, che finì 0-0, io vestivo la maglia neroverde e presi tantissimi insulti dalla curva arancione, ma io avvertivo un’aria particolare, avevo anche degli amici in quel settore: anche mia moglie capì che era arrivato il momento di tornare alla base, per così dire, e non ho neppure aspettato il mercato di gennaio, ho rescisso il mio contratto con il club pontaegolese e sono rientrato a Pistoia. Praticamente, a distanza di 16 anni, sono passato dal gol salvezza in Serie B a quello contro L’Aquila sotto la Curva: una grande emozione. Dico qui quello che ho detto anche ai tifosi: volevo tornare a Pistoia per riprovare a fare bene, volevo lasciare un bel ricordo del Colombo uomo e giocatore”.
Impresa centrata. Ma ti è dispiaciuto chiudere senza un gol?
“Per un paio di giorno dopo la gara contro il Livorno ho pensato a quella rovesciata uscita di poco, ma segnare un gol così voleva dire chiedere troppo: direi che va bene così, tutti gli obiettivi che mi ero prefissato li ho raggiunti. Anzi, voglio anche ringraziare Protti, mi ha portato sotto la Curva del Livorno che mi ha omaggiato con applausi: è stato bello”.
A proposito di gol: ne hai segnati più di cento, ma se tu dovessi sceglierne solo uno, quale diresti?
“Devo essere sincero, tutti i gol siglati, in un modo o nell’altro mi hanno emozionato, come è normale che sia, ma quello contro la Racing Roma è stato quello più coinvolgente: è stato l’ultimo in carriera. Però anche i primi che contavano, la doppietta in semifinale e il gol in finale con la Primavera dell’Atalanta, sono reti che mi rimangono dentro”.
Ma un rimpianto nella carriera di un bomber vero c’è?
“Si, quello di non aver giocato per più anni in Serie A: allora c’erano campioni veri, e quindi era più difficile, ma a detta di tanti avrei avuto tutte le qualità. Il mio procuratore, lo stesso da sempre (Tulli Tinti, ndr) mi massacra tutt’ora per questo!”
Si guarda quindi al futuro: cosa c’è nel domani di Colombo?
“Dal futuro mi aspetto da me il meglio, voglio togliermi ancora tante soddisfazioni, e mi aspetto di farlo. Sicuramente mi piacerebbe ancora una volta ripartire dalla squadra della mia città, e mi auguro di avere questa possibilità. Se poi dovessi dire quali sono i miei obiettivi…sicuramente c’è quello di diventare direttore sportivo”.
Chiudiamo con un esperimento: Colombo giornalista. Faccio fare a te i top&flop, perno del nostro sito, alla tua carriera.
“TOP:
ho avuto la fortuna di vivere e giocare nelle più belle piazze d’Italia dove si viveva di calcio e dove vivevano gli anni migliori. Ho avuto la fortuna di essere allenato dai tecnici più preparati degli ultimi vent’anni di calcio (Lippi, Prandelli, Conte, Ventura, Donadoni, per fare alcuni nomi). Ho avuto la fortuna di giocare con i calciatori più forte degli ultimi vent’anni. Ho sempre raggiunto gli obiettivi prefissi. Non è andata male… ENTUSIASMANTE
FLOP:
il mio carattere. FUNAMBOLICO E PASSIONALE”.
Testata giornalistica Aut.Trib. Arezzo n. 7/2017 del 29/11/2017
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