ESCLUSIVA TLP - Mi ritorni in mente : Mauro Bertarelli

ESCLUSIVA TLP -  Mi ritorni in mente : Mauro BertarelliTMW/TuttoC.com
© foto di Daniele Buffa/Image Sport
domenica 19 luglio 2015, 22:30Interviste TC
di Daniele Mosconi
88° appuntamento

Pensando a Mauro Bertarelli e alla sua carriera da attaccante, il bivio del 29 settembre 1994 è imprescindibile: quella sera con la maglia della Sampdoria si infortuna gravemente nella partita di Coppa delle Coppe contro i norvegesi del Bodoe Glimt e quello che poteva essere non sarà più. Non esiste lo "sliding doors" nel calcio, come è avvenuto nel famoso film del 1998.
Fino a quel momento il futuro di questo ragazzo nato ad Arezzo e cresciuto calcisticamente nello Jesi (la madre era della stessa città dove è nato Roberto Mancini, ndr) era roseo: tutto lasciava presagire momenti di assoluta brillantezza per la sua carriera con le porte della Nazionale maggiore che gli si stavano per aprire: "Mi disse l'allora Ds della Samp, Paolo Borea, che il Ct della Nazionale Arrigo Sacchi, voleva convocarmi per la partita seguente degli azzurri".

Quello scontro con il portiere del Bodoe Glimt si rivela il crocevia drammatico per Mauro Bertarelli. Prima di allora c'era stata la gavetta con lo Jesi (1987/88), l'Ancona che lo prende l'anno successivo per la Primavera e già in quella squadra fa vedere le sue doti. I dorici però non lo reputano pronto per la prima squadra e lo spediscono in C al Rimini (1989/90) dove inizia a confermare quanto di buono si dice su di lui.

La maturità per la prima squadra biancorossa c'è tutta e l'evento clou per i tifosi dell'Ancona arriva il 7 giugno 1992 quando la squadra diretta da Vincenzo Guerini ("Un burbero che sapeva farsi rispettare. E quanto fumava!") riesce a raggiungere la serie A per la prima volta.

L'arrivo nella massima serie coincide per Mauro Bertarelli nell'approdo alla Sampdoria nell'affare di quegli anni: il passaggio di Vialli dai blucerchiati alla Juventus. La Sampdoria era il trampolino di lancio: serviva solo calibrare bene il tuffo. Se dopo il primo anno in blucerchiato per Bertarelli la realtà fu più dura del previsto, in considerazione del fatto che in quegli anni la Samp annoverava nelle sue fila gente del calibro di Jugovic, Lombardo, Platt, Gullit e per Bertarelli era difficile trovare posto, la stessa cosa non avviene la stagione successiva quando parte con il piede giusto fino a quel maledetto 29 settembre 1994.

Fermiamoci qui e facciamoci raccontare dal protagonista numero 88 di "Mi ritorni in mente", in esclusiva per TuttoLegaPro.com quello che successe in seguito.

Mauro, benvenuto all'appuntamento numero 88 con "Mi ritorni in mente".

"Grazie a voi per l'invito".

Possiamo definire la tua carriera un "poteva essere ma non è stato"?

"Sì, effettivamente possiamo definirla benissimo così: un poteva essere ma non è stato. Quell'infortunio mi ha cambiato la carriera. Se non ci fosse stato, sicuramente si sarebbero aperti scenari inaspettati. Sono soddisfatto comunque di essere rimasto a buoni livelli nonostante quell'infortunio, anche in B. Effettivamente le prospettive erano altre".

Quel 29 settembre 1994 - giorno dell'infortunio - l'hai cicatrizzato dentro di te?

"No, ancora lo ricordo benissimo. Provo ancora tristezza e amarezza: con la Sampdoria avevo iniziato a trovare spazio e posso confessarti che l'allora Direttore sportivo della Samp, Paolo Borea mi aveva anticipato che Arrigo Sacchi mi avrebbe convocato di lì a poco in nazionale".

Le cronache di quegli anni parlavano di un giocatore dal sicuro avvenire.

"Diciamo che non ero scarso. Purtroppo c'è stato questo episodio che mi ha compromesso la carriera: dovevo fare 24 anni ed ero nel clou. Dopo quell'infortunio, come ti dicevo, sono rimasto a buon livello, ma le aspettative erano altre".

Dopo un incidente simile non è neanche facile a livello psicologico tornare quello di prima.

"E' stata dura: sono stati due anni dove ho subìto due interventi che alla fine non si sono rivelati risolutori. Ogni volta che provavo a bruciare le tappe il ginocchio si gonfiava. Anni dopo mi sono operato altre due volte. Posso farti un termine di paragone molto forte: come avere un tumore e piano piano vai a morire. Ho smesso a trent'anni, questo penso faccia capire tutto".

Tu nasci ad Arezzo e cresci calcisticamente nello Jesi.

"Sì perché mia madre era di Jesi e ci siamo trasferiti lì: avevo otto anni. Avendo avuto un padre (Giuliano, attaccante anni sessanta e settanta con le maglie di Arezzo, Spal, Cesena, Fiorentina, ndr) che giocava a calcio, ho girato un po' l'Italia con loro e alla fine ci siamo stabiliti a Jesi. Fino a sedici anni ho fatto la trafila nelle giovanili dello Jesi e poi mi ha preso l'Ancona (1988/89). Con i biancorossi ho iniziato la primavera, poi mi hanno mandato a Rimini in C (1989/90) dove ho giocato quindici partite e ho fatto anche qualche gol".

Con l'Ancona l'approdo in prima squadra quando avvenne?

"La stagione successiva a quella di Rimini. I dirigenti biancorossi venivano a vedermi e durante l'amichevole del giovedì mi mettevo in luce e questo faceva sì che mi tenessero in considerazione. Così nel 1990 entro in pianta stabile in prima squadra e in quei due anni mi tolgo una delle migliori soddisfazioni della mia vita: portare l'Ancona in A".

Nel 1991/92 l'apoteosi: la serie A.

"A Bologna, nella partita che ci ha dato la matematica certezza della A, c'erano qualcosa come diecimila tifosi dell'Ancona sugli spalti e noi sentivamo il peso della responsabilità che avevamo addosso. Quello è stato l'epilogo di una cavalcata memorabile. In quel periodo si era creata un'atmosfera che in seguito non è più avvenuta: non c'era solo Ancona a trepidare ma tutta la provincia e questo creava un clima indescrivibile".

Quando vi siete accorti che era fatta?

"A Venezia quando pareggiammo con un mio gol al 95'. Sono quei classici segnali che ti fanno capire che qualcosa potrebbe avvenire. Pensa che all'inizio l'Ancona era candidato alla retrocessione: invece domenica dopo domenica abbiamo preso coscienza dei nostri mezzi e da lì abbiamo capito il nostro reale valore".

Allenatore di quella squadra Vincenzo Guerini.

"Allenatore duro, un po' burbero, però gran conoscitore della materia. Era un duro, ma dal grande cuore. Molto impulsivo, un motivatore e trascinatore. Non so dirti quanti pacchetti di sigarette fumava durante la partita: forse tre".

Dopo l'Ancona sei passato alla Sampdoria (dal 1992 al 1996). C'è una leggenda che narra come Gianluca Vialli fosse l'unico che potesse sopportare Roberto Mancini. Era così insopportabile il capitano della Samp?

Ride imbarazzato prima di rispondere: "Era uno sempre sul pezzo "il Mancio" e non mi meraviglio che sia diventato un grande allenatore visto che già in campo era prodigo di consigli. Rispondendo alla tua domanda posso dirti che quando giocavi accanto a lui, non dico che fossero rose e fiori, ma se sbagliavi qualcosa, non gli passava la mosca al naso. Non era facile sopportarlo e se ti prendeva di mira non passavi momenti molto piacevoli".

Nel 1992 sei diventato Campione d'Europa Under 21.

"Fu un anno fantastico: dall'Ancona in A alla Juventus nell'affare Vialli che passò ai bianconeri, poi venni girato alla Sampdoria. Sono il giocatore che ha fatto incassare più soldi all'Ancona: la Juventus mi pagò nove miliardi".

Alla Samp non era facile trovare spazio.

"C'erano giocatori di caratura internazionale come Platt, Jugovic, Gullit. Potevi solo imparare stando accanto a loro".

So che il difensore più duro che hai affrontato lo avevi in squadra alla Sampdoria: Pietro Vierchowod.

"Un vero mastino. Ne ho trovati pochi di difensori come lui. Il giovedì nella partitella erano dolori e la frattura alla mandibola me l'ha procurata lui. Prima della partita era un tipo molto schivo e taciturno, però in campo era un vero animale. Per fortuna che l'ho avuto più spesso come compagno che come avversario".

Tuo padre Giuliano qualche consiglio te lo dava?

"Devo dirti la verità: è sempre stato molto critico nei miei confronti e anche se si può pensare che mi abbia dato una mano, posso dirti che lui è totalmente uscito dall'ambito calcistico dopo che ha appeso gli scarpini al chiodo. Mio padre è sempre stato un tipo taciturno e non era molto prodigo di consigli: se c'era da criticare non faceva mancare il suo giudizio, ma consigli ben pochi".

C'era un attaccante a cui ti ispiravi?

"C'era Marco Van Basten del Milan. Negli anni successivi ci ho anche giocato contro ed era un piacere per gli occhi vederlo muoversi in campo".

Quanto ti è stata utile la gavetta prima di esplodere?

"Mi è servita molto e posso dirti che l'anno a Rimini è stato duro perché facevo il militare a Bologna. Dal lunedì al venerdì ero in caserma. Scendevo a Rimini e ti dico che avevo diciotto anni, ero giovanissimo, lontano per la prima volta dalla famiglia. Star fuori tutta la settimana, non tornare mai a casa, è stata dura. Però se vuoi giocare a calcio devi fare dei sacrifici e non sempre hai la necessaria tempra per farli. Tanti ragazzi oggi si perdono perché i sacrifici vengono meno e le tante distrazioni li portano a mollare".

Parlando degli attaccanti: la scuola italiana non fa più proseliti come un tempo e ora li mandiamo all'estero, vedi gli ultimi casi di Immobile ed El Shaarawy. Solo crisi generazionale?

"Non la definirei crisi, visto che gli attaccanti bravi ci sono. Forse è il sistema che è cambiato. Fino a qualche anno fa c'era maggiore attaccamento alla maglia e c'era più genuinità".

In attesa di qualche attaccante di valore, fa ancora notizia gente come Luca Toni e Francesco Totti.

"Sono simboli di un calcio che sta pian piano scomparendo. A questi aggiungerei Del Piero e se nei casi di Totti e dell'attaccante della Juventus c'è quello spirito da bandiera, non si può dire lo stesso per la punta del Verona che comunque sta finendo la carriera come meglio non poteva. Non so se, nel calcio attuale, appena appenderanno gli scarpini al chiodo, ci sarà qualcuno che potrà prendere il loro testimone".

Pensi che il campionato italiano abbia bisogno di tutti questi calciatori stranieri?

"Ci sono tanti fattori che portano i club a scegliere uno straniero rispetto ad un italiano, a partire dai costi e inoltre con i procuratori che spesso fanno il bello e il cattivo tempo, ci sono dei giri che spesso sfuggono ad un occhio poco avvezzo a certe logiche".

Con il Brasile in crisi, non pensi che ci sia un livellamento verso il basso del calcio in generale.

"In Italia sicuramente sì. Forse perché mancano un po' di soldi. Però vedo che si fa fatica un po' dappertutto: a parte gli sceicchi, sono pochi quelli che possono investire e diciamola tutta: certe cifre pagate per certi giocatori fanno pensare".

Ricollegandomi all'ultima domanda: questo livellamento verso il basso però fa risaltare realtà come Frosinone e Carpi.

"Piccoli, ma organizzati. Ho avuto l'esperienza di Empoli (1997, ndr) - dove con Spalletti in panchina ho vinto anche il campionato - che mi ha insegnato tanto: era una struttura piccola, ma ognuno sapeva cosa fare e non interferiva nel lavoro degli altri e se i toscani ancora oggi fanno la spola tra A e B, significa che sanno come sfruttare le loro capacità, che non saranno quelle del Milan o della Juventus, ma in quel loro ambito sono dei maestri".

Attualmente lavori nel settore giovanile dell'Ancona. Quali sono le differenze tra la tua gioventù e quella di questi ragazzi?

"Come ti dicevo prima, l'esperienza del militare e il giocare a Rimini sono state una pietra miliare per me. Mi ha molto fortificato e posso dirti che oggi le cose sono cambiate: l'aspetto della strada, maestra di vita di tanti come me, si è perso e quindi anche la parola sacrificio ha perso valore. Dalla PlayStation ai Social Network, sono tante le distrazioni. Per fortuna ci sono ancora dei ragazzi che credono nel sacrificio e nell'allenamento. Nella mia esperienza ad Ancona - ormai sono quattro anni - ho cercato di insegnare prima di tutto i valori e di seguito come si sta in campo".

Finiamo parlando dell'Ancona: credi che la Lega Pro sia la dimensione giusta per la società?

"Attualmente sì. Negli ultimi anni l'Ancona è stato gestito da proprietà che hanno fatto parecchi danni e il tifoso questo colpo l'ha incassato in maniera dolorosa, facendo sì che la gente si allontanasse. Manca quell'entusiasmo che ha portato nel 1992 la squadra a salire in A".

Con la regola dei giovani che vige in Lega Pro non è neanche facile creare quello zoccolo duro che può riportare il tifoso a innamorarsi della propria squadra.

"Bisognerebbe creare un vivaio che ridia sfogo a quelle eccellenze e ogni tanto lanciarne uno in prima squadra. Per ricreare quell'entusiasmo bisogna anche cibarsi di questo. E' un lavoro duro, ma oltre alle parole ci vogliono i fatti".

Prossima intervista per "Mi ritorni in mente": domenica 2 agosto 2015.