ESCLUSIVA TLP - Mi ritorni in mente: Igor Zaniolo

Quando un giocatore decide che è arrivato il momento di appendere gli scarpini al chiodo, sa bene che insieme agli scarpini, saranno gli anni della gioventù ad andare in pensione.
Mediamente per un calciatore la carriera dura all'incirca venti anni, vissuti su pullman, spogliatoi, campo, locali dove si svolge la riunione tecnica e ritiri. Tanti, infiniti ritiri. Tutto ha un suo valore e non andrà mai via. Sarà parte del giocatore anche quando diventerà "ex".
Anni conditi da passione per quel pallone che fin da bambini è un'ossessione. Anni vissuti con la valigia in mano, secondo ferro del mestiere dopo gli scarpini.
Quella valigia che per Igor Zaniolo è ancora fresca di odori e ricordi calcistici. A ottobre 2013 decide che il suo momento è arrivato: "Quando hai uno straccio di nome e il fisico non risponde più alle sollecitazioni, la cosa migliore da fare è dire basta, per evitare brutte figure".
Igor in questa intervista esclusiva concessa a TuttoLegaPro.com decide di aprire la cerniera lampo della sua valigia a piccole dosi. I ricordi escono fuori un po' come le camicie ingolfate negli angoli: dai gol alle sue sfuriate sul campo. "Per me era scendere in guerra ogni domenica. Fino a cinque minuti prima parlavamo amabilmente, ma al fischio dell'arbitro dimenticavo tutto e tu eri un mio nemico. E' stato un tratto distintivo della mia carriera".
Sono tanti i momenti, anche eclatanti, che tira fuori: dal rifiuto a Lillo Foti e alla Reggina, condite dalla rabbia del presidente dei calabresi: "La sua famiglia sarà sempre la benvenuta a Reggio. Lei no", alla squalifica di sei mesi che lo costringe a dire addio all'Inter; in questa vicenda c'è da sottolineare la sua uscita dall'"Arena Garibaldi" vestito da carabiniere dentro una camionetta per evitare l'ira dei tifosi nerazzurri.
Tra i tanti ricordi c'è il Cosenza: una città, quella calabrese, che l'ha fatto sentire un re e lui ha ripagato quell'amore con impegno e voglia di dare tutto: "Andai in ritiro con loro la stagione successiva e sapevo che non sarei rimasto per molto. Mi prese male quando dovetti partire".
Figlio della strada, di un pallone in comitiva, di partite interminabili con le rivincite delle rivincite con i compiti che erano più un alibi per continuare che fermarsi: "Sono nato e cresciuto nel quartiere di Quarto a Genova. Giornate che iniziavano con il pallone e finivano, stremati, con il pallone accanto al letto".
Igor conosce la passione e il sentimento che si cela dietro una maglia e nella sua lunga carriera ha vissuto tutte queste sensazioni, facendolo da protagonista.
Arrivato a Cosenza dallo Spezia nella stagione 2001/02: "C'era il Perugia in A e il Chievo che mi volevano, e tra le altre ipotesi al vaglio, scelsi Cosenza. Volevo provare un'esperienza al Sud per vedere cosa si provava a giocare in una piazza come quella rossoblù".
Igor, nasci a Genova nel quartiere di Quarto.
"Ero il cocco di mamma, anche se devo ammettere che mio padre quando si arrabbiava, con mio fratello eravamo molto attenti ad ascoltarlo. Penso di aver vissuto una gioventù come tanti: calcio, spiaggia, amici, musica e marinare la scuola".
Ah, quindi non eri un amante dello studio.
"No, questo no. Però quando c'era l'occasione, il ritrovo era il bar a passare la mattinata con gli amici".
Dopo l'infanzia e l'adolescenza arrivi alla Samp, fino alle porte della prima squadra che in quegli anni (primi '90) annoverava Vialli, Mancini, Cerezo, Dossena, Lombardo e mister Vujadin Boskov in panchina.
"Nella Samp ho fatto il settore giovanile e in prima squadra ho fatto qualche allenamento, prima di essere mandato a giocare altrove".
Hai avuto modo di conoscere, seppure per poco, mister Boskov: che personaggio era?
"Un uomo positivo, aveva sempre quella verve ironica e scherzava parecchio con i giocatori. Sapeva farci con la squadra".
Non ha mai perso le staffe?
"Davanti a me no, però mi han detto che quando doveva fare le sue sfuriate, c'era da preoccuparsi e i muri di Bogliasco (dove si allena la Sampdoria) tremavano in maniera particolare".
Era vero secondo te che Vialli e Mancini facevano la formazione? Girava questa voce in quegli anni.
"Secondo me, per quel poco che l'ho conosciuto lui dava questa idea e gli faceva comodo darlo ad intendere. Rientrava nel suo ruolo di guascone. Boskov ascoltava tutti, ma alla fine decideva da sé".
Boskov diceva che i giocatori vincono le partite, gli allenatori le perdono.
"Insomma, se rimaniamo in tema Sampdoria posso dirti che quella era una squadra composta da tanti campioni e solo questi ti possono far vincere le partite. L'allenatore ha un compito particolare: tenere unito il gruppo e avere sempre ben chiaro cosa fare in qualsiasi frangente. Una stagione è lunga e la corda deve essere tesa in modo permanente".
Parliamo di te: in molti ti hanno descritto come un dottor Jekyll e mr. Hyde. Sul campo eri un altro e ti trasformavi, mentre fuori stentavano a riconoscerti.
"E' stata una caratteristica che ho portato fin dagli albori della mia carriera da giocatore. Sono stato sempre un istintivo e sul campo dimenticavo le amicizie, dimenticavo tutto. Scendevo in guerra. Era una questione d'orgoglio. In questi mesi in cui ho mollato il calcio mi sto rendendo conto che non ero l'esempio da seguire per i bambini".
Sono tante le storie di ex giocatori che parlano di questo aspetto dei novanta minuti: negli anni '60-'70 questo tipo di marcature da parte dei difensori era la norma e si dimenticava tutto nell'arco della partita stessa. Questioni di onore che da fuori finivano sul terreno di gioco. Un'Italia più antica ma più vera e genuina.
Cosenza nel 2001/02. Arrivi in Calabria dallo Spezia.
"C'erano molte squadre che mi volevano, tra cui il Perugia e il Chievo. Scelsi Cosenza perché conoscevo l'allora Direttore sportivo, Ciccio Marino. Eano anni che mi veniva dietro e ogni volta gli sfuggivo. A dire il vero sono arrivato nello scetticismo generale della piazza. Loro si aspettavano un colpo di maggior caratura dal mercato e vissero il mio arrivo come un rincalzo".
Li hai fatti ricredere da subito.
"Si infatti. Feci tipo cinque sei gol e da lì è iniziato un rapporto bellissimo con la piazza e la tifoseria".
I giornali locali che, come hai detto, ti hanno accolto con scetticismo, hanno iniziato a trattarti come semidio.
"Era bello come clima e avevo bisogno di questo per potermi caricare. Penso che un giocatore ami sentire queste attenzioni su di sé. C'è bisogno del sacro fuoco di una città innamorata per riuscire con quell'entusiasmo a far divertire i tifosi sugli spalti".
La stagione successiva vai via subito, con un bottino di 13 gol in 27 partite.
"La politica della società la conoscevo bene: loro sfruttavano queste situazioni, vedi gli stessi Savoldi, Lucarelli. Monetizzavano sulla valorizzazione dei giocatori. Non nego che mi prese male quando dovetti andar via perché stavo bene a Cosenza".
Dal Cosenza passi alla Ternana, ma...
"C'era il pressing della Reggina che mi voleva a tutti i costi. Marino me ne parlò e gli dissi che se dovevo cambiare volevo avvicinarmi a casa".
Lillo Foti ti fa una corte spietata.
"Dici bene: spietata. Mi chiama un paio di volte e mi spiega il progetto. Glielo dico con garbo che non ero interessato, ma non voleva sentire ragioni. Dovevo andare alla Reggina perché c'era già un accordo tra le società ed io non potevo rifiutarmi".
Si sarà fatto una ragione?
"Per niente. Anzi, chiama la mia famiglia e cerca di convincere mia moglie dell'occasione che gli sta offrendo. Non c'è verso, finché una notte...".
Una notte?
"Sì, mi chiama all'una e mi fa: tu non devi farmi perdere la pazienza. Domani devi venire a Reggio che c'è la presentazione di Nakamura e voglio fare le cose in grande. Gli faccio notare che ormai avevo deciso di non accettare e lui va su tutte le furie".
Cosa ti dice?
"Ma tu lo sai che l'unico che ha detto no a Lillo Foti è stato Roberto Baggio? Io gli faccio notare che dopo Baggio poteva inserire anche il mio nome nei rifiuti eccellenti".
L'avrà presa bene immagino.
"Per niente, anzi mi dice una cosa che mi ha raggelato in un certo qual senso: la sua famiglia sarà sempre la benvenuta a Reggio. Lei no".
Personaggio di una certa levatura caratteriale.
"Lo so, ma ormai avevo deciso. Scherzo del destino volle che io due anni dopo andai al Messina (2003/04)".
Cosenza quest'anno è tornato nella "Lega Pro unica".
"Non la scopro io come piazza e i dilettanti erano un'offesa ad una città che ha fame di calcio. Anche la stessa Lega Pro gli sta stretta. Il "San Vito" in B è uno stimolo per chi ha voglia di emozioni forti".
Per parlare di quest'altro episodio che ti ha visto protagonista, torniamo ancora indietro e più precisamente nel campionato di Serie D 1995/96. Vestivi la maglia dell'Aosta e in panchina c'era Ferruccio Mazzola, fratello di Sandro che allora era Direttore sportivo dell'Inter.
"Sì, avendo un Mazzola come allenatore, il fratello Sandro una volta venne a vedere una nostra partita e il mister mi disse che dovevo finire la stagione in maniera tranquilla che c'era un accordo con l'Inter. Da lì poi mi avrebbero girato altrove. Ero particolarmente sereno".
Fino alla partita dell'"Arena Garibaldi" contro il Pisa, dove succede di tutto, al punto che è saltato il tuo trasferimento ai nerazzurri meneghini.
"I tifosi pisani conoscevano il mio temperamento e sapevano che bastava poco per accendermi. E così succede il patatrac".
Cosa in particolare?
"Niente, c'è un fallo di un avversario nei miei confronti e non ci vedo più. Quasi non mi pareva vero. Tra provocazioni dei tifosi e situazione in campo incandescente, la partita che era terminata intorno alle 16:30, ci ha visto uscire dallo stadio intorno alle 21. Per evitare tumulti ulteriori - intanto la polizia e i carabinieri avevano caricato i tifosi di casa e c'era stata una sassaiola: cose davvero aberranti - le forze dell'ordine decidono di vestirmi da carabiniere per farmi uscire".
Da carabiniere? Stai scherzando!
"No no, è tutto tremendamente vero. Fecero uscire il pullman da un'uscita secondaria, facendo credere ai tifosi che io fossi lì, invece ero in una camionetta dei carabinieri".
Alla fine non solo salta il tuo passaggio all'Inter ma vieni squalificato per sei mesi.
"Mi hanno fatto pagare di tutto e di più. Purtroppo doveva andare così, non sono rammaricato per quella che è stata la mia carriera".
Senti, cambiamo argomento: hai qualche allenatore a cui devi tanto sotto l'aspetto professionale?
"Sicuramente Andrea Mandorlini, lo stesso Mondonico mi hanno aiutato molto a migliorarmi. Certo, caratterialmente non sono mai cambiato e con il senno di poi ancora non ho realizzato del tutto se fosse un bene o meno".
Arrivato a 40 anni suonati decidi che è arrivato il momento di dire basta con il calcio.
"Sono stato un giocatore fisico e facevo della determinazione e del temperamento le mie armi per poter vincere sul campo, dove la tecnica non arrivava. A lungo andare il logoramento c'è, senza nascondersi tanto e quando ti accorgi che il corpo non risponde più come un tempo, ma soprattutto quando vedi che hai uno straccio di nome, prendi la decisione di lasciare. Giusto così".
Ti stai disintossicando in questi mesi.
"Ho preso un bar-tabacchi a Spezia dove vivo. Per il momento sto bene così. Tra qualche mese potrei decidere di tornare in ballo. Il master da allenatore l'ho fatto, quindi tutto può accadere".
Dirigente non è nelle tue corde?
"Non so fare il politico e se devo tornare ho bisogno di un ruolo attivo".
Da allenatore puoi far scatenare nuovamente il dottor Jekyll e mr. Hyde che è in te.
"Esatto".
Abbiamo parlato tanto di calcio, ma c'è un altro sport dove sei appassionato?
"Ci sono le arti marziali miste, la Ufc (Ultimate Fighting Championship, federazione americana leader nel mondo in questa disciplina). Non avessi fatto il calciatore, visto il fisico avrei intrapreso questa carriera. Ora l'età non me lo consente".
Ti disintossichi e non giochi più? Non ci credo.
"Proprio del tutto non ce la fai mai. Il pallone lo cerchi sempre ed è una malattia che non va via. E' una passione infinita".
Prossimo appuntamento con "Mi ritorni in mente": domenica 25 maggio.
Testata giornalistica Aut.Trib. Arezzo n. 7/2017 del 29/11/2017
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