Lo scudetto con Trapattoni e la Reggiana in Serie A: Dario Morello

Torna Club dei 100, il longform di TuttoC che racconta le storie di chi ha fatto la storia del calcio italiano. Il primo protagonista è Dario Morello.
12.11.2021 09:30 di Ivan Cardia Twitter:    vedi letture
Lo scudetto con Trapattoni e la Reggiana in Serie A: Dario Morello

La Reggiana in Serie A, in casa del Cesena. Storia di diciotto anni fa. Nel weekend, la formazione emiliana ospiterà i bianconeri; nel 1993, proprio il Manuzzi fu il teatro di una promozione indimenticabile, per la Regia. In campo, tra i trascinatori della cavalcata firmata da Giuseppe Marchioro, un attaccante che tra le altre cose aveva già uno scudetto in bacheca. Dario Morello, 175 presenze e 24 gol con la maglia granata, fa parte del Club dei 100 voluto da Lega Pro e AIC. Domenica sarà ospite allo Stadio del Tricolore, contro un avversario che per la Reggiana ha un sapore particolare. Quello della storia, che per lui prende le mosse da più lontano.

Si parte dall’Inter. Classe ’68, pugliese di Lecce, Morello arriva all’Inter quando non è più scontato che accada, perché i suoi primi passi in nerazzurro non sono quelli di un giovanissimo: “Avevo diciassette anni - ricorda Morello a TuttoC - feci la prima stagione alla Berretti, con Masiero”. Non è un avvio in discesa, la conferma dopo il primo anno è in dubbio: “Non ero cresciuto tantissimo a livello tecnico, poi in Primavera arrivò Marini (Giampiero, quasi 400 presenze con la Beneamata, campione del mondo 1982, ndr) al posto di Corso e puntò su di me. Disse che nel giro di un paio di anni sarei esploso tra i professionisti, era convinto ne avessi le qualità”. Ha ragione lui, chiaramente, Morello rimane: “Di quella Primavera ho un ricordo fantastico, ci sentiamo ancora tutti, eravamo capitanati dal mister che è una persona stupenda - continua Morello - per me la sorpresa è arrivata durante una partita contro il Torino. Giocavamo ad Appiano: arrivati al campo, Marini mi disse che Altobelli non stava bene e che a fine primo tempo mi avrebbe detto se dovevo partire con la prima squadra. Andò così”.

Il “giovane Morello”. Dal Torino dei suoi coetanei, al Verona dei grandi. In panchina con l’Inter c’è Giovanni Trapattoni, per cui quel ragazzo di diciannove anni diventerà una sorta di talismano. “Immaginatemi, io cresciuto in una famiglia pugliese, trovarmi a partire per Verona con l’Inter piena di campioni - racconta - il Trap mi fece addirittura esordire. Da lì nacque tutto, l’anno dopo vincemmo lo scudetto e la Supercoppa”. Andiamo con ordine. Trapattoni lo conosciamo tutti, ma che allenatore era per un giovane come Morello? “Uno molto presente. Ci parlava spesso, ci consigliava spesso, ci teneva lì a lavorare sui fondamentali. Pensi che quell’anno si fermava con noi a fine allenamento anche Mattheus: col sinistro non era fortissimo, voleva migliorare e si metteva a lavorare con noi giovani per farlo”. Mica solo il tedesco, in quella squadra c’erano autentici fuoriclasse: “Il Trap era molto presente, ti dava tanta carica e fiducia, per un ragazzino non è facile trovarsi bene coi campioni. Però devo dire che io ero forte di carattere, e poi c’erano uomini che sapevano migliorarti. Da Bergomi a Baresi, sono stati fondamentali”. Dopo il primo anno di rodaggio, arriva la stagione 1988/1989: Trapattoni conferma Morello, lo vuole in squadra e lo fa giocare. Segna il primo gol in Serie A contro la Cremonese, scende in campo da titolare in Coppa UEFA, preferito a uno come Ramon Diaz. Ma la sfortuna ci vede benissimo: frattura del perone, nel momento migliore. “Non è stato un bell’episodio - continua Morello - ma devo dire che non mi è pesato. Sapevo che il Trap mi avrebbe aspettato”. Ed è così: quando torna a disposizione, Morello gioca. Col minutaggio di un giovane, è chiaro, ma tra i protagonisti della stagione dei record, quella del tredicesimo scudetto, c’è anche lui. Che di campionati ne vince due: al rientro dall’infortunio, Marini chiede a Trapattoni di poterlo schierare nelle finali scudetto della Primavera. Permesso accordato: Morello segna, poi gioca anche con l’Inter dei grandi. “Ho ricordi fantastici, davvero, poi l’anno successivo vincemmo anche la Supercoppa, con la soddisfazione di averla giocata da titolare contro la Sampdoria al fianco di Serena”.

A farsi le ossa. Trofei a parte, Morello è ancora giovane. A ventidue anni deve giocare da titolare: “Funziona ancora oggi così, figuriamoci allora che le rose erano più ristrette. Si parla di 18 giocatori più tre/quattro Primavera, io non lo ero più e quindi ci si andava a fare le ossa in Serie B, in modo che la società valutasse se era il caso di tornare alla base”. All’Inter, Morello non rientrerà più. Ma troverà casa, perché la sua B è la Reggiana: “Ci andai carico e poi a Reggio Emilia trovai subito una società molto organizzata, che lavorava molto bene sui giovani. Sono stato molto bene a Reggio, sono tuttora molto legato a quei colori”. Della Reggiana, dice Morello, ti innamori: “Quando entravi nel Mirabello sentivi subito il calore dei tifosi. Lo sentivi anche prima, mentre arrivavi. Vede, noi non andavamo al ritiro: ci vedevamo la sera prima, poi il mattino. Guardavamo la Primavera e poi prendevamo il pullman per arrivare allo stadio. Quando entravamo, vedevamo tutti i tifosi che arrivavano”. Un altro calcio, un altro spettacolo: “Vero. C’era un legame incredibile tra i tifosi, i giocatori, la società. Mi rimase veramente impresso. Così partì questa avventura”.

Sognando Vialli, inseguendo la Serie A. Ma che giocatore era Morello? “Avevo molta corsa, avevo potenza e forza. Col passare degli anni diventai forte nel dribbling”. Il modello l’ha già trovato da avversario, proprio in quella finale di Supercoppa: “Mi ispiravo a Gianluca Vialli, che è sempre stato il mio idolo, il mio mito, ho avuto la fortuna di conoscerlo e giocarci contro la Samp. Mi rivedevo in lui: ovviamente era più tecnico di me, ma solo a vederlo trasmetteva questa voglia di non mollare mai. L’ha dimostrato anche dopo aver smesso di giocare a calcio”. Come Vialli, anche Morello, nel suo caso a Reggio, ha giocato con Fabrizio Ravanelli. Nell’anno sbagliato: reduce dai 16 gol dell’anno precedente, nella stagione 1991-1992 Penna Bianca trascina la Reggiana ma si sentono le sirene della Juventus. Ravanelli segna 8 gol, i bianconeri lo vogliono già a gennaio, il club emiliano dice di no. Morale della favola: un infortunio alla spalla nel finale di stagione, e la Regia non centra la promozione. “Dissero che non eravamo riusciti a salire perché non volevamo. Assurdo: chi è che non vuole andare in Serie A? Noi lo volevamo e ci abbiamo provato, ma ci mancava un calciatore fondamentale”.

La promozione, i campioni, un’altra Serie A. L’anno giusto è quello successivo, campionato 1992-1993. Trascinata dai gol di Morello e Sacchetti, la Reggiana vince la B: “Eravamo una squadra veramente forte, vincevamo sempre. In casa, fuori: non faceva differenza. E abbiamo scritto due volte la storia della Reggiana, perché l’impresa è stata salvarsi l’anno successivo in A”. Sempre con Marchioro in panchina, dopo il primo posto in cadetteria dell’anno precedente, la Reggiana conclude infatti al quattordicesimo in A nella stagione 1993-1994. Vuol dire salvezza. Non è, del resto, una squadra qualsiasi: in porta, per dire una, gioca uno come Claudio Taffarel, che pochi mesi dopo diventerà campione del mondo col Brasile a Usa ’94. “Avere un campione così è stato una fortuna, ma era in generale una squadra molto forte. Per citarne un altro, avere Michele Padovano è stata la nostra vera arma in più. Diciamo che Reggio Emilia ha avuto la fortuna di vedere un bel calcio, quegli anni lì al Mirabello sembrava quasi un film. Con chi li ha vissuti, quando ci incontriamo per strada, ci diciamo che abbiamo avuto la fortuna di vivere delle stagioni meravigliose”. Era la Serie A dei campioni: “Era un’altra epoca, è vero, anche se devo dire che anche in questo 2021 vedo tante squadre ben messe in campo. Ecco, magari all’epoca contavano di più la tecnica, la giocata, l’intelligenza”. E, vista da un attaccante, le botte che si prendevano: “Secondo me era più difficile, prima. Ho affrontato giocatori da paura: Couto, Mihajlovic, Maldini, Tassotti, Vierchowod. Ho giocato con Ferri e Mandorlini: si faceva fatica ad andare via a questi difensori qui. Forse c’entrava anche il fatto che era un periodo di passaggio: erano cresciuti marcando a uomo, ora stavano iniziando a difendere a zona, ma i fondamentali restano. Si giocava ancora così, per esempio il Milan col mezzo libero Baresi. Però l’impostazione era diversa, quando ero all’Inter ricordo cosa disse Trapattoni a Beppe Baresi prima di giocare contro il Napoli: prendilo e seguilo anche in bagno”. Chi? Un certo Diego Armando Maradona.

Scendere non fa paura. Salvata la Reggiana, che retrocederà al termine del campionato successivo, Morello resta in Emilia ma non in Serie A. Arriva la chiamata del Bologna, in C1, e il salto all’indietro di due categorie non spaventa: “A a me piaceva giocare, il calcio per me era vita, era sport, era tutto. Giocare era la cosa principale, la categoria non faceva differenza, cosa che noto oggi. E poi erano altri tempi. Pensando all’Inter, ricordo che dopo il ritiro facevamo sempre un’amichevole a Taranto. Loro giocavano in B o in C a seconda degli anni, ma lo stadio era sempre pieno. Facevano un tifo spaventoso”. Così, il Bologna, non prima di aver “rischiato” di tornare nella sua regione di origine, la Puglia: “Dovevo andare al Bari - ricorda Morello nel suo colloquio con TuttoC - ma alla fine tennero Gautieri, io avevo Marangon e Oriali che insistevano per il Bologna. Ho accettato perché era una piazza blasonata, e poi sapevo che non poteva rimanere in C a lungo. Ero convinto che avremmo vinto il campionato”. I rossoblù di Morello ne vincono due, di fila: dalla C1 il salto è doppio, verso la Serie A: “Sono stati anni belli, anche a livello umano perché ho conosciuto persone come De Marchi, Bresciani, Pergolizzi, gente con cui siamo rimasti amici. E poi lì ho incontrato Ulivieri, che mi ha fatto crescere ancora: a Reggio ho fatto quattro anni molto molto buoni, a Bologna sono arrivato all’apice della mia carriera”. Nella gioia della piazza: “Incredibile riportarli in A. Io ricordo ancora il derby che facemmo contro il Crevalcore, in Serie C: 35 mila spettatori al Dall’Ara. Roba da pazzi”. Da un rossoblù all’altro, Morello nel 1996 passa dal Bologna al Genoa: “Un’altra piazza fantastica, altri due anni stupendi. Tifoseria numero uno: bisogna avere la fortuna di vestire quella maglia per capire cosa significa. Lì il mio unico rammarico, i tifosi lo sanno, è non aver riportato la squadra in A per un punto”. Per il Grifone, sono i tempi della B, di Spinelli e di Massimo Mauro come presidente. Per Morello, una parentesi prima di tornare a casa.

Il bis non felice, in Scozia finisce prima di iniziare. Nell’estate del 1998, arriva una chiamata a cui non si può dire di no. La Reggiana bussa alla porta di Morello. Che di quel bis non ha un ricordo felice: “Tornai convinto di poter fare bene, magari di rimanere anche per lavorare dopo il mio addio al calcio. La Reggiana è sempre stata la società che ho avuto nel cuore, però non è andata come avrei voluto”. La prima stagione è tetra: la Regia punta alla promozione in A e finisce per retrocedere in C. È il primo passo verso quello che sarà poi il fallimento, che pure Morello cerca in tutti i modi, per quel che può, di evitare in maniera attiva: il suo stipendio è tra i più pesanti, la società gli chiede di abbassarlo al minimo sindacale. Inizialmente è incerto, è convinto che i cocci li debba pagare chi li rompe, poi accetta: “Lo feci perché avevo e ho la Reggiana e i suoi tifosi nel cuore”. Grazie a questa decurtazione, la società riesce a iscriversi al campionato, rimandando l’ineluttabile fallimento. Non basta per sistemare le cose, soprattutto per Morello. Un infortunio al ginocchio, il recupero, la società che lo porta al collegio arbitrale perché lo giudica non idoneo nonostante si possa regolarmente allenare, due anni di contratto sostanzialmente persi, con qualche pendenza della prima stagione da regolare. “La cosa più assurda - spiega Morello, che di questa parentesi parla poco e mal volentieri - fu quando alla fine mi dissero che per avere quell’arretrato dovevo tornare a giocare per evitare la retrocessione”. Salutata la Regia un’altra volta, l’attaccante vola in Scozia, a Dundee. Dura pochissimo, finisce prima di iniziare: “Mio figlio era molto piccolo, io e mia moglie andammo in Scozia, ma era tutto troppo complicato. A malincuore dovetti risolvere il contratto, mi dispiacque perché sarebbe stata una bella esperienza, anche in una sola settimana capì che c’erano le occasioni per fare bene”.

Una piccola squadra della provincia emiliana. Tornato in Italia, Morello si accasa prima al Brescello, in C2. Poi, chiude la carriera tra i professionisti in una piccola realtà della provincia modenese. Si chiama Sassuolo, gioca in C: “Ho vissuto la nascita dell’era Squinzi, era arrivato l’anno prima. Ricordo una professionalità incredibile per quei livelli. Era evidente la voglia di questa persona di arrivare nel calcio che conta”. L’indimenticato patron dei neroverdi ha le idee chiare sin da subito: “Disse chiaramente che quello sarebbe stato un anno di transizione, ma che nel giro di cinque anni voleva portare la società nel grande calcio”. Volere è potere, si dice. E chi l’avrebbe immaginato che un giorno quella neroverde sarebbe stata la “grande” a esibirsi al Città del Tricolore, dandogli addirittura il suo nome, Mapei Stadium: “È una cosa che ai tifosi, ma anche a noi giocatori che abbiamo la Reggiana nel cuore, fa un po’ male, però è così. Anzi, io dico sempre che è una fortuna, se non fosse per il Sassuolo magari non ci sarebbe quello stadio in cui poter giocare”.

E oggi? A Reggio Emilia, dal 2018, tanti ragazzi si allenano nella scuola calcio Dario Morello: “Siamo partiti quattro anni fa - spiega il diretto interessato - con 36 bimbi. Poi due anni di lockdown hanno creato dei problemi, è ovvio. Ora siamo arrivati a 120 bambini ed è una grandissima soddisfazione”. E la Reggiana di mister Diana? “La seguo sempre, ovvio. È una squadra che a me piace tantissimo, al di là dell’allenatore che è molto molto bravo ricorda tanto quella della nostra promozione. Gioca a calcio, non ha paura, va anche fuori casa a giocare a viso aperto. È una squadra che segna tanto, ma che non si arrende quando va sotto, ha la capacità e la forza di ribaltare le partite”. Ne sa qualcosa, Dario Morello, di promozioni.