ESCLUSIVA TLP - Mi ritorni in mente: Giuseppe Galderisi

Se Giuseppe Galderisi avesse oggi quindici anni, potrebbe solo sognare quello che gli è accaduto trentasette anni fa: arrivare alla Juventus a nemmeno quindici anni ed entrare a far parte del vivaio bianconero. Due anni e mezzo dopo esordiva il 9 novembre entrando al 60' di uno scialbo 0-0 tra Perugia e Juventus.
Oggi una storia come quella di Beppe Galderisi sarebbe solo un'utopia: rimbalzato dagli Allievi alle squadre di Eccellenza o di serie D, nella speranza di essere quello che farà il salto di qualità fino in serie A.
Per giunta Giuseppe non era neanche alto, quindi fuori dai target odierni che vogliono il calciatore alto, ad iniziare dal metro e ottanta in su. Che si sia scambiato il calcio per il basket?
I suoi occhi furbi e mai fermi, l'hanno reso il furetto che a Padova in sei anni (dal 1989 al 1995) ha trascinato i biancoscudati a rivivere le emozioni della serie A dopo 32 anni di attesa. La sua ultima partita con i biancoscudati la gioca a Firenze, nello spareggio contro il Genoa per la permanenza in serie A, vinto poi ai rigori.
Una carriera importante - tre scudetti vinti: due con la Juventus e uno, quello storico, con il Verona nel 1985 - per un giocatore che ha avuto come allenatori gente come Trapattoni: "Mi dava certi calcioni dietro la schiena, perché mettevo le braccia sul tavolo quando mangiavamo", a Verona Osvaldo Bagnoli: "Non parlava molto, ma sapeva leggere le partite come pochi".
Quegli insegnamenti li ha portati con sé nella carriera da allenatore: "Prima o poi devo fare il salto di qualità, non ho voglia di vivacchiare". Le delusioni degli ultimi anni: "A Salerno (nel 2012, ndr), sotto la gestione Lotito, sono stato mandato via dopo due partite perché non ascoltavo cosa mi dicevano. Rimane un rammarico forte, ma sono dell'idea che prima o poi tornerò nella mia Salerno e allenerò la Salernitana, la squadra del mio cuore", sono una cicatrice che gli fa male, ma non si dà per vinto.
Quella Salernitana per cui faceva follie per vederla al vecchio "Vestuti" (funzionante fino al 1990. Attualmente la Salernitana gioca le partite interne allo Stadio "Arechi", ndr), scavalcando i muretti.
Storie di vita e di passione dietro ad un pallone, raccontate in questa intervista esclusiva per TuttoLegaPro.com da Giuseppe Galderisi nel corso della rubrica "Mi ritorni in mente", giunta con oggi al suo 93° appuntamento.
Giuseppe, benvenuto nell'angolo di "Mi ritorni in mente". Con te faremo un viaggio nella tua carriera da calciatore prima - con un occhio di riguardo al Padova -, da allenatore poi. Sei pronto?
"Intanto vi ringrazio per l'invito. Sono carico e pronto a rispondere alle vostre domande".
Nasci a Fratte, quartiere di Salerno e da bambino giochi sul campetto in terra di Marina di Vietri.
"Esatto. Sono stato scoperto da Enzo Campione, che in quegli anni era uno dei dirigenti più apprezzati, sia umanamente che calcisticamente. E' il mio secondo padre anche se lo chiamo fratello: mi è sempre stato vicino, prendendosi tutti i rischi del mondo portandomi via dalla Frattese".
Fermiamoci un attimo perché c'è un episodio inquietante dietro il tuo addio alla Frattese.
"I tifosi della Frattese stessa non la presero bene che io andassi via, al punto che Enzo rischiò anche di essere picchiato per questa cosa. Ero un ragazzino, appena rientrato da Trecasali in provincia di Parma dove la mia famiglia si era trasferito da dieci anni, facendo le medie a Salerno. Il primo anno l'ho fatto a Fratte, poi mi sono trasferito a Vietri con i rischi del caso per Enzo e a dodici anni feci il provino per la Juventus dove a vedermi c'erano Cestmir Vycpalek e Zeman".
Tornato da Parma diventi "Peppe o' parmense".
"A Trecasali mi avevano dato il nomignolo di "ciccillo". Arrivato a Salerno, un po' la cadenza della voce e un po' altri aspetti, mi hanno dato questo soprannome, accogliendomi nella loro famiglia. A quei tempi si viveva molto la strada, si giocava solo lì e il fatto che giocassi bene mi ha aiutato sicuramente in tante cose".
La tua famiglia ti ha aiutato molto.
"Si parte sempre da lì, dalla famiglia e dalle persone che ti aiutano a crescere. Credo di aver avuto una famiglia e quando posso ne approfitto per venire a Salerno per vedere mia madre che ha 81 anni. Mio padre l'ho perso nel 2010, tifosissimo della Salernitana e amante del calcio: da loro ho imparato a vivere con la leggerezza giusta, senza dimenticare che in questo mondo devi sempre stare attento. Di conseguenza, la mia è una famiglia molto legata, nonostante sono stato lontano".
Così a 14 anni ti trasferisci alla Juventus e hai definito l'esperienza in bianconero: "una palestra di vita".
"Credo che la Juventus sia stata una seconda madre sotto tutti i punti di vista, migliorandomi calcisticamente con tutti gli allenatori che ho avuto. Ma soprattutto credo, avendo avuto a quindici anni la fortuna di trovarmi in prima squadra con giocatori che prima di tutto erano uomini e professionisti modello: potrei citarti i nomi dei primi che mi vengono in mente come Furino o lo stesso Zoff, che la Juventus mi ha insegnato tanto in campo, ma soprattutto fuori. Quando si dice lo stile Juventus si intende anche questo. Mi hanno insegnato a crescere, a diventare uomo, anche con qualche scappellotto come lo chiamava Trapattoni, ma in fondo volendomi tanto ma tanto bene e quando c'era qualcosa da pretendere per me, andavano loro, io avevo quindici anni e non potevo andare: così andavano Zoff o Furino, insomma gli uomini spogliatoio. A sedici anni ho esordito e non dimenticherò mai i loro insegnamenti, dandomi il bastone quando c'era da migliorarmi, la carota quando c'era da coccolarmi. Boniperti mi ha cresciuto in mezzo a tanti ragazzi che come me avevano il sogno di diventare calciatore".
Ci puoi raccontare qualche episodio accaduto con Boniperti?
"Quando c'era da andare a discutere di contratto c'erano i vari Furino, Bettega, Zoffi che mi davano dei consigli: quando sei lì - mi diceva - tu parla il meno possibile, quando ti dice la cifra, tu devi dire di si. Ricordo che avevo diciotto anni e dovevo fare il mio primo contratto da professionista ed entrai nello studio di Boniperti: non ho assolutamente parlato, ma non c'era bisogno, Boniperti sapeva quello che doveva fare. Non ti nascondo che in quel periodo la mia famiglia non navigava in buone acque e qualcosina in più che potevano dare a me, la giravano direttamente alla mia famiglia: questa è la dimostrazione di ciò che ti dicevo prima e di quello stile Juve così inconfondibile".
Si dice che Boniperti fosse un po' tirato sui compensi: ingaggi bassi, ma premi partita alti.
"Era molto tirato. Ero in camera con Paolo Rossi dopo i Mondiali ed era il periodo che lui, Tardelli e Gentile non giocarono alcune amichevoli estive perché non c'era l'accordo economico. Poi la soluzione si trovava sempre. Devo dirti che non prendevo un ingaggio elevato: intorno alle quarantamila lire di allora, duecento le mandavano ai miei".
I calci dietro la schiena di Trapattoni?
"Questo succedeva i primi tempi che ero a Torino e mi capitava di poggiare le braccia sul tavolo. Il Trap mi vedeva e avvicinandosi da dietro e mi dava un calcietto per farmi rimanere composto".
Altri episodi?
"C'erano Zoff e Scirea che mi avevano preso sotto la loro tutela e ogni venerdì sera mi invitavano a cena da Mauro a Torino, rigorosamente con le loro mogli, a capotavola. Quindi immagina il mio comportamento che doveva essere ancora più rigoroso per non fare una brutta figura di fronte a loro che mi volevano così bene. Ero più concentrato con loro in quelle cene che durante gli allenamenti".
C'è una frase dell'ex giocatore argentino Jorge Valdano: "Ogni volta che respiro l'odore dell'erba del campo, mi ritorna in mente l'infanzia".
"Devo dire che quando ho smesso di giocare, avevo trentasei anni, venivo dagli Stati Uniti, ho continuato ad allenarmi perché mi sentivo ancora bene fisicamente e la cosa che mi portava a fare con naturalezza gli allenamenti era proprio questo sapore, questo profumo di spogliatoio, di olio canforato. Penso che un calciatore quando smette, tre cose gli rimangono impresse che non dimenticherà mai: l'odore dell'erba, l'odore dello spogliatoio, il vissuto dello spogliatoio stesso e quell'emozione grazie a qualche giocata, a qualche gol, a qualche vittoria, che dava gioia ai tifosi. Sono cose che quando uno decide di smettere, rimangono dentro. Fortunatamente ovunque sono stato, Torino, Milano - anche se qui ci sono stato poco, era il primo Milan di Berlusconi -, Verona, ho dato tanto e ho ricevuto tantissimo, guadagnandomi il rispetto di tutti, anche se il grande amore della mia vita è la Juventus che è stata l'apripista della mia carriera".
Parlando della tua esperienza a Verona, culminata in quello storico scudetto del 1985, descrivendo Osvaldo Bagnoli hai detto che ti ha responsabilizzato.
"Si, lo confermo. Vedi, venivo dalla Juventus dove ero il gioiellino della società, ben voluto da tutti, ma ormai per me le occasioni di giocare si erano chiuse avendo davanti gente come Paolo Rossi - rientrato dalla squalifica per il calcioscommesse -, Tardelli, gli stessi Boniek, Platini. Parlai con Boniperti e gli manifestai la volontà di voler giocare e lui fu d'accordo con me e mi mandò a Verona. Capirai, avevo 21 anni, sentivo quel desiderio e quell'ambizione di dimostrare che potevo essere un protagonista in campo. Arrivai a Verona con questa voglia di dimostrare, non era stato un caso quello che era successo fino a qualche mese prima. Trovai una persona che aveva una lungimiranza che ho trovato in pochi in questo mondo, la gestione dello spogliatoio, l'attenzione nel saper leggere le partite prima che qualcosa succedesse anticipando le mosse, la gestione dell'essere umano stesso, tutte doti racchiuse in Osvaldo Bagnoli. Credo che mi abbia dato quello che serviva a Galderisi in quel momento: la responsabilità di quello che io dovevo fare. Oltre a creare un grande gruppo, vincendo uno Scudetto storico, ho trovato in compagni come Volpati, Tricella, Fanna o lo stesso Marangon, quella spinta giusta nei miei momenti di difficoltà, facendomi voler bene con la giusta umiltà e sacrificandomi per continuare ad inseguire il mio sogno. Il grande aiuto che è venuto da Verona è stata la continua crescita sotto tutti i punti di vista, calcistici e umani, iniziati nella Juventus e Bagnoli è un maestro in questo. Ti parlavo della forza di quel gruppo: pensa che ancora oggi ci incontriamo ogni tanto e l'ultimo sabato abbiamo giocato un'amichevole dove c'era anche Gene Gnocchi ed è stata l'occasione non solo per stare insieme ma per vedere come siamo messi (ride, ndr)".
Hai definito lo Scudetto a Verona il successo di Davide contro Golia. Pensi che sia ripetibile una cosa simile nel breve-medio periodo?
"Quante volte ci troviamo con quel gruppo meraviglioso e ci chiediamo la stessa cosa: sotto certi aspetti credo che la cosa possa anche accadere. Quello che abbiamo vissuto noi quell'anno è stata una bellissima magia, però guardando la realtà credo che attualmente sia difficile che un Chievo, un'Atalanta o il Sassuolo, possano vincere uno Scudetto. Tra l'altro, sono andato a rivedermi le squadre che affrontavamo in quella stagione e tutti i più grandi campioni di quel periodo erano in Italia: Maradona, Bertoni, Zico, Brady, Socrates, Francis, Rumenigge, Falcao, Cerezo, Prohaska. Junior. Noi quell'anno partimmo per vincere il nostro Scudetto che era la salvezza: con il passare delle settimane ci accorgemmo che avevamo quel giusto mix che serviva per vincere: la spregiudicatezza del giovane Galderisi, la saggezza di Volpati, l'equilibrio di Tricella, Fanna abbinati a quei due meravigliosi stranieri che erano Elkjaer, uniti ad una bacchetta magica che aveva tra le mani Bagnoli, persona normale - ed era questa la sua bellezza:la sua normalità - è venuto fuori quel Verona che è entrato nella storia del calcio non solo nazionale, ma mondiale. Ovunque vado nel mondo, quando incontro un veronese, mi sembra di conoscerlo: ci abbracciamo come se non ci vedessimo da chissà quanto tempo. Quello che è successo a Verona, almeno dal punto di vista emotivo, mi è successo anche a Padova. Ancora oggi, da allenatore porto con me gli insegnamenti che ho ricevuto da calciatore e se qualcosa ho rubato a Bagnoli è stato il suo essere un uomo giusto. Quando dai rispetto ed educazione e pretendi quello che è giusto pretendere dai tuoi giocatori, alla fine ti ritrovi degli uomini che fanno il proprio lavoro e lo fanno molto bene. Quello che dico spesso ai miei ragazzi è la conoscenza dell'essere umano: Bagnoli non parlava molto, ti guardava e dentro quegli occhi c'erano mille parole. E' fondamentale nel mio ruolo il rispetto, la disciplina e quella complicità che è necessaria. Bagnoli era una persona umile, ma allo stesso tempo molto ambiziosa e questo l'ha portato ad essere un allenatore come pochi".
Di Trapattoni cosa hai preso?
"Trapattoni, come lo stesso Bagnoli, vengono da una scuola calcistica, antica ma non vetusta: quella del Paron Rocco. Io mangiavo accanto a Cuccureddu, Cabrini, era una sorta di ferro di cavallo e Trapattoni era lì a tre metri. Il suo occhio sempre attento difficilmente si faceva sfuggire qualcosa e quando capitava, ci pensava Cuccureddu a farmi notare i miei errori, quello che era giusto non giusto. Qualche volta veniva Zoff e mi faceva mettere il braccio al posto quando non ero composto a tavola. Trapattoni mi ha insegnato a divertirmi, ad essere modesto, ad essere vincente attraverso la convinzione di quello che si fa. Credo che questi due personaggi - Trapattoni e Bagnoli - mi hanno dato tanto e il mio pensiero prima di addormentarmi va a loro che mi hanno insegnato molto sotto tutti i punti di vista".
Nella tua carriera di allenatore sei sempre stato sul punto di fare il grande salto: hai fatto il passo del gambero molte volte.
"Intanto ti dico che sono felicissimo di aver iniziato la carriera da allenatore dopo aver fatto per tanti anni il calciatore: adoro questo tipo di lavoro, adoro lo spogliatoio, mi piace confrontarmi con dei ragazzi, giovani o meno giovani, campioni o no, perché per me questa è una continua crescita. Credo nella complicità e nella forza che mi hanno trasmesso i grandi allenatori che ho avuto: credo che avere in pugno uno spogliatoio non sia solo indirizzarli, ma renderli partecipi al cento per cento, per esaltare le loro qualità in base agli obiettivi. Sono orgoglioso di quello che ho fatto dove sono stato e ancora adesso ci sono persone che mi apprezzano sotto tutti i punti di vista. Purtroppo non sono bravo a gestirmi determinate cose, perché probabilmente in questo mondo bisogna essere un pochettino figli di buona donna. Ho sempre creduto - questo me l'hanno insegnato i vari Trapattoni e Bagnoli - che non bisogna mai scendere a compromessi, non guardare in faccia nessuno e di andare avanti. Se questo è un difetto, forse in certe circostanze avrei potuto gestire meglio certe situazioni per rimanere dentro e arrivare all'obiettivo. Ho fatto delle ottime stagioni - Benevento, Foggia, Avellino, Arezzo, Pescara - e solo per sfortuna non ne ho vinto uno. Spesso e volentieri, nonostante la fatica fatta, questi gruppi sono stati distrutti con una facilità irrisoria. Non sono uno che guarda il piatto degli altri, perché ognuno ha una storia e una sua vita. Ci sono dei tempi nella vita e delle decisioni delle volte che uno crede di far bene, ma l'importante è andare a letto con la coscienza a posto. L'importante è avere la stima dei giocatori, essere apprezzato dalle tifoserie dove hai lavorato, essere ricordato ancora adesso. Ci sono dei vantaggi che non trascuro e nella mia umiltà ambizione, mi piacerebbe confrontarmi con esperienze come in Portogallo (Olhanense nel 2014, ndr) in serie A. Sarri, ad esempio: l'ho incontrato nel 2002 quando allenava la Sangiovannese e se una persona come lui, che ha fatto una gavetta incredibilmente dura come la sua, non arrendendosi mai è arrivato a 57 anni al Napoli, sia un esempio da prendere in considerazione. Nel calcio alle volte succedono cose impreviste: fai grandi campionati, arrivi ad un passo dalla serie B e l'anno dopo vengono distrutte perché non sei stato capace di gestire cose esterne dal campo. Sono alla ricerca di diventare il più grande allenatore del mondo, sapendo che le difficoltà ci sono e vanno affrontate. D'altronde sono le difficoltà che rendono l'uomo vincente".
Rimane il rammarico di aver avuto solo per poche giornate la possibilità di allenare la tua Salernitana.
"Prima di morire, mio padre mi chiese di portare la Salernitana in serie A. Nel 2012 si presenta l'occasione di allenare la squadra del mio cuore e nonostante l'inizio di campionato non fosse stato esaltante c'erano le condizioni per fare un buon lavoro, solo che Lotito decise che dovevo andar via perché non ascoltavo. Sono dell'idea che nel calcio tutto può succedere e prima o poi tornerò a Salerno. Per far si che questo accada c'è bisogno che cambino certe cose".
Christian Panucci, capolista con il suo Livorno in serie B, ha parlato di allenare i suoi ragazzi a vincere. Secondo te è possibile una cosa simile?
"Si, secondo me la prima cosa che deve dare un allenatore è l'essere vero. Non dimentichiamo che quando uno entra in uno spogliatoio, il calciatore se ne accorge subito se di calcio ne sai, se sei vero, sei finto, se sei un raccomandato. Il comportamento sotto l'aspetto umano è fondamentale per farsi conoscere e l'altra cosa che devi assolutamente capire è che tipo di uomini e che tipo di calciatori hai, da dove arrivano, le loro potenzialità. Dopo l'aspetto tecnico e tattico, che viene secondo me in seconda linea, c'è la mentalità vincente. Ci sono giocatori che ho preso in corsa e si sono trasformati e alla fine hanno apprezzato quello che tu hai fatto per loro. Ce ne sono altri che pensano di aver chiaro come vincere, ma non è così ed è per questo che l'allenatore diventa anche una guida. Vincere vogliono vincere tutti, avere la mentalità vincente è un'altra cosa: si passa da dove arrivi, dall'esperienza che hai, dal modo che tu proponi per arrivare a certi obiettivi. Le mie squadre devono giocare per vincere, in casa e fuori, perché solo così tiri fuori tutto il coraggio che hai, la forza per poter essere una squadra vera. Credo che Christian abbia ragione: bisogna essere vinenti. Non bastano i sacrifici individuali, ma ci vogliono tante componenti per esserlo".
Sei un appassionato di tennis, sport dove sei solo contro il tuo avversario. Hai mai vissuto da calciatore la solitudine del tennista?
"Non ho mai sentito intorno a me indifferenza e solitudine. Nei gruppi dove sono stato per il mio modo di essere, in campo e nello spogliatoio, sempre predisposto a vivere il gruppo e il campo nel modo migliore. Ascoltare sempre per rubare dei segreti per crescere. Non mi sono mai sentito solo, anche grazie al mio modo di essere. Mi sono sempre sentito forte in mezzo ai miei compagni, avendo vissuto in gruppi dove gli altri mi hanno costruito. Arrivato a Padova, con l'esperienza accumulata, ero io che costruivo loro. Sotto questo aspetto certi gruppi diventano indimenticabili non solo per quello che si era vinto, ma per quello che ci siamo dati".
A Padova in sei anni sei riuscito dove in tanti hanno fallito: dopo 32 anni in serie A (1994/95).
"Credo che tornare in serie A dopo 32 anni, facendo anche delle rinunce a livello personale è stato il coronamento di un grande sogno".
Rinunce personali di che tipo?
"A Padova stavo andando molto bene e c'era Trapattoni quando era all'Inter che mi avrebbe ripreso di corsa, come terza punta, ma ho preferito rimanere a Padova perché ritenevo di essere troppo importante per quel gruppo che ogni anno perdeva la serie A sempre per un soffio e nonostante la squadra ogni stagione che passava, perdeva dei pezzi importanti, come Di Livio, Albertini, Benarrivo. Fortuna che il gruppo era solido ed io ero il giocatore più rappresentativo: tutto questo sacrificio, questa forza, siamo riusciti ad ottenere questo obiettivo che rimarrà nella storia. A Padova penso che abbiano visto un bel Galderisi come calciatore. Credo che abbiano apprezzato tante altre cose, non solo in campo: non mi sono mai nascosto, condividendo le lacrime dopo le sconfitte e la gioia di ottenere degli obiettivi importanti come la serie A, l'hanno apprezzato".
A Padova sei stato premiato, insieme a Nereo Rocco, come il biancoscudato del secolo.
"Questo penso che sia uno degli scudetti non conquistato sul campo, ma è uno scudetto di vita. Al di là delle prestazioni e dei gol, la gente ti vota per quello che sei stato e questo mi rende molto orgoglioso. Spesso il calciatore viene dimenticato per l'uomo che è, ricordando solo i gol, mentre qualche volta se si ricorda il calciatore a tutto tondo, significa che hai lasciato un bel segno, indelebile mi sento di aggiungere".
In conclusione: un episodio simpatico della tua esperienza a Padova.
"Te ne posso dire uno: con noi al primo anno di serie A c'era Alexi Lalas, il difensore americano con quel suo look molto stravagante, ma che si è rivelato un ottimo calciatore. Era il periodo che venivamo da cinque partite e zero punti: ci trovavamo a Bresseo e durante uno scontro di gioco Alexi subisce il colpo e dopo qualche istante prende e se ne va".
Dove?
"Non nello spogliatoio, ma proprio a casa sua con i vestiti dell'allenamento. Noi siamo rimasti a guardarlo attoniti e siamo andati a prenderlo, io e Nunziata. Lui, vestito con la divisa del calcio Padova se ne voleva andare a casa, sulla statale con le macchine che gli sfrecciavano vicino. Motivo? Si era arrabbiato. Un personaggio come pochi, sempre con questa chitarra in mano. Potrei raccontarti di quelle serie A sfiorate gli anni prima, con l'Ascoli o l'anno successivo a Lucca al 92' stavamo pareggiando ed eravamo in serie A, entra Simonetta nei rossoneri e segna, invece di stare buono. La stagione successiva Roberto (Simonetta, ndr) è arrivato a Padova e noi nello spogliatoio gli abbiamo fatto trovare tutto il suo guardaroba nel bagno principale per non fargli dimenticare quello che aveva fatto qualche mese prima. La forza di quel gruppo, come quello del Verona, si sono innamorati di un calciatore che ha dato sempre tutto. Il tempo passa, certe cose però non le può cancellare".
Prossima intervista per "Mi ritorni in mente": domenica 11 ottobre
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