Flop Italia, le cause di una crisi endemica: talento ingabbiato e poca meritocrazia
All’indomani dell’ennesima figuraccia rimediata dalla nostra Nazionale, siamo qui a interrogarci sulle cause dei mali del nostro calcio. Come avviene del resto ciclicamente da circa vent’anni a questa parte, con l’estemporanea parentesi dell’Europeo inglese vinto sfruttando le congiunzioni astrali di un periodo storico particolare. Qua il punto non è qualificarsi o meno, tanto vale rimanere a casa se poi la fine è quella degli ultimi due Mondiali giocati: fuori nei gironi, contro avversari modesti. Il quesito da porsi è dove potrebbe arrivare l’Italia se riuscisse a staccare il pass negli agognati spareggi di marzo con rivali che un tempo sarebbero stati considerati sparring partner mentre oggi appaiono come ostacoli quasi insormontabili. Da poche parti la risposta d’acchito, perché la qualità media è bassa.
Ma di chi è la colpa se in un Paese calcio-centrico come il nostro non riusciamo più a sfornare campioni? Domanda da un milione di dollari, ancora inevasa stando ai risultati recenti. Le responsabilità sono collettive e vanno equamente divise. La crisi di vocazione c’è, ma si tratta piuttosto di capire perché il talento nascosto nel sottobosco rimane spesso lì, ingabbiato dalle convinzioni di allenatori che già a livello giovanile pensano più alla tattica credendosi novelli Guardiola trascurando la crescita effettiva e la valorizzazione del ragazzo. Gli straordinari exploit di tennis e pallavolo dovrebbero essere oggetto di studio, le 40 medaglie ottenute nelle ultime due Olimpiadi dimostrano che il problema non è strutturale, in altre federazioni si è seminato bene a livello formativo e i frutti del lavoro di programmazione si vedono, mentre paradossalmente quello che dovrebbe essere il punto di forza, si è trasformato invece nel nostro tallone d’Achille.
E la Serie C in tutto questo che ruolo può avere? Marginale, almeno per il momento. La Riforma Zola è la classica goccia nell’oceano, si dirà almeno qualcosa è stato fatto a differenza dell’immobilismo delle categorie superiori. Vero, ma resta troppo poco e gli effetti benefici a lungo termine sul sistema sono tutti da verificare. La politica del ‘sempre meglio di niente’ non porta lontano. Le tanto bistrattate seconde squadre dividono dal giorno zero in cui sono state implementate ma non sono un’idea da buttare a priori, a patto di impiegarle con una certa logica come accade ad esempio in Spagna: usarle come parcheggio provvisorio per infarcirle di calciatori stranieri, sulla falsariga di una pratica già diffusa senza grande successo nelle Primavere, ha poco senso. Per uscire dalla mediocrità, serve una riforma coraggiosa che metta al centro il talento e la meritocrazia: solo così il calcio italiano potrà tornare a competere ai massimi livelli.
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