ESCLUSIVA TLP - Mi ritorni in mente : Ugo Tomeazzi

ESCLUSIVA TLP -  Mi ritorni in mente : Ugo TomeazziTMW/TuttoC.com
© foto di Matteo Bursi
domenica 22 novembre 2015, 22:30Interviste TC
di Daniele Mosconi
97° appuntamento

La bellezza di un incontro di calcio ha il suo prologo nell'applauso che il pubblico sugli spalti concede ogni volta che le squadre escono dal tunnel per dare inizio ai novanta minuti. Quello dell'applauso è forse uno degli ultimi gesti nobili e romantici di un calcio che in molti ancora non riescono a digerire, diviso com è tra anticipi, posticipi e anticipi dei posticipi.

Tanti gli applausi che Ugo Tomeazzi ha vissuto, prima da calciatore, in seguito da allenatore. A Mantova ancora adesso il suo nome viene pronunciato con rispetto: Tomeazzi in maglia virgiliana ha vissuto anni importanti. Quelli in cui la serie A si difendeva con i denti e la retrocessione veniva vissuta come motivo di riscatto per il ritorno la stagione successiva nella massima serie.

Arrivato nel 1963 dal Napoli, Tomeazzi, centrocampista di una squadra dove c'era anche Dino Zoff in porta, è protagonista di nove stagioni in maglia virgiliana dove disputa cinque campionati di A e quattro di B, collezionando 219 presenze. Altri tempi.

Vicino ai 75 anni, Tomeazzi ha concesso in esclusiva a TuttoLegaPro.com quest'intervista per la rubrica "Mi ritorni in mente" - arrivata con oggi al suo 97° appuntamento -, rivivendo le sensazioni vissute da calciatore e da allenatore, soffermandosi sull'esperienza a Mantova.

Mister, le manca un po' il calcio?

"Mentre parlo con lei sto guardando una partita in tv. Sono sempre un grande tifoso di questo sport; mi piace guardarlo da seduto".

E' meno stressante guardarlo in tv.

"Sono d'accordo. Pensi che qualche settimana fa, tramite un amico che lavora nella Lazio, sono andato a vedere la partita Sassuolo-Lazio. Sono rimasto sorpreso dai tanti controlli che ci sono: far vedere la carta d'identità, perquisizioni. Cose che un tempo non avvenivano. E' un segno dei tempi: se penso a quello che è successo a Parigi, credo che sia un male necessario".

Ai suoi tempi queste cose non accadevano.

"Non accadevano perché c'era meno pressione su tutto: si viveva la domenica con la spensieratezza di passare un'ora e mezza in serenità. Si andava allo stadio con la famiglia intera. Oggi se piove non puoi portare l'ombrello dentro, ma riescono a far entrare cose anche peggiori. Era meno sentito l'incontro di calcio, c'era la televisione ma era agli albori".

Il suo passaggio dal Napoli al Mantova avviene nel novembre del 1963.

"Prima di andare al Napoli ho giocato nell'Inter. Ricordo che i partenopei erano in B e giocammo contro il Mantova. Ci conoscemmo lì e il Mantova si ricordò di Tomeazzi che era a Napoli in B. Da quel momento la città di Mantova è diventata la mia casa: ancora oggi vivo in questa splendida città. Da giocatore ho fatto nove anni, da allenatore altri cinque, sei anni".

Allenatore era Bonizzoni.

"Da novembre fino a giugno c'era Bonizzoni. Fu un campionato di salvezza senza patemi d'animo. C'erano grossi giocatori: Zoff in porta, Schnellinger, Jonsson, Giagnoni, Pini, Simoni. Una squadra molto forte che qualche anno prima era salita dalla quarta serie alla A. Dal 1963 al 1971 il Mantova faceva la A e la B: eravamo il Chievo di oggi per farle capire meglio. Certo, una volta che andavi giù era anche più difficile risalire".

Che allenatore era Luigi Bonizzoni?

"Se non ricordo male veniva dal Milan. Molto esperto, un buon allenatore. L'anno successivo arrivò Cadé, facemmo un buon campionato il primo anno, il secondo andò male. Questa era la mentalità provinciale che c'era a Mantova: se la squadra andava male non si cambiava l'allenatore".

Oggi è completamente diverso.

"Adesso se ne cambiano anche tre, quattro, facendo tornare anche quelli che sono stati mandati via in precedenza. E' una brutta abitudine del nostro calcio".

Lei nasce centravanti, poi divenne centrocampista. Di mezzo c'è Gustavo Giagnoni.

"Ero centravanti nel Modena, nel 1958. Feci le Olimpiadi a Roma nel 1960: era una buona squadra con Rivera e Bulgarelli, perdemmo contro la Jugoslavia dopo il lancio della monetina. A quei tempi non c'erano i calci di rigore come oggi e arrivammo quarti dopo aver perso contro l'Ungheria (2-1: gol degli azzurri proprio di Tomeazzi, ndr). Fu una grande esperienza giocare le Olimpiadi a Roma e spero di rivederle ancora a Roma (candidata all'organizzazione delle Olimpiadi del 2024, ndr) finché il buon Dio mi vorrà tenere al mondo".

Come divenne centrocampista?

"Ero un centravanti di movimento: ricordo che Giagnoni era il capitano di quel Mantova: la bandiera di quella squadra. Grande giocatore, soprattutto dal punto di vista caratteriale. Ricordo che in campo mi riprendeva, mi esortava spesso e ogni tanto mi capitava di avere delle discussioni con lui: era sempre lì a dire tutto su qualunque cosa facessi, si figuri se poi non perdevo le staffe (ride, ndr). Questo suo modo di vedere il mio ruolo mi portò ad arretrare il mio raggio d'azione. La sua grande particolarità era l'essere generoso: come era con me in campo, lo era con tutti. Ci dava la carica in campo, nonostante avessimo una squadra di un certo livello. Avevamo un presidente come Zenesini: a livello economico non avevamo nessun timore. Anche lui vive a Mantova: non sta bene, ha difficoltà nel camminare. Io lo prendo in giro e gli dico che se avesse corso meno quando era giocatore, a quest'ora non sarebbe in queste condizioni".

Parlando di Giagnoni lei l'ha definito "una testa sarda".

"Era cocciuto, come ogni buon sardo. Difficilmente retrocedeva dalle sue idee".

A questo riguardo lei ama ricordare una definizione di Giagnoni, quando ammetteva di aver sbagliato qualcosa: "Ho esagerato. Forse".

"Vede, Giagnoni era convinto di quello che faceva. Qualche volta, ascoltando i consigli di noi più vecchi dello spogliatoio, capiva che qualcosa delle sue idee, tanto giusto non era. Se anche avessimo avuto una parte di ragione, non ammetteva mai di aver torto. Noi credevamo fino in fondo alle sue idee, ed anche come allenatore era un condottiero".

Di cosa parlate quando vi incontrate?

"Tra gli altri, dei tempi andati. Bei tempi".

La forza del Mantova dove possiamo rintracciarla?

"Nonostante delle disavventure economiche, la forza di questa società sono i tifosi: anche quest'anno si sono superati i duemila abbonamenti. Con la vita travagliata degli ultimi anni, il pubblico è sempre presente. Se la squadra lottasse per i primi posti, sono certo che gli spalti sarebbero anche più gremiti".

Il "Danilo Martelli" di quando giocava lei era un'altra cosa.

"Ricordo l'ultimo anno che ho allenato a Mantova, c'era presidente Grigolo. Siamo arrivati secondi dietro al Chievo e c'erano i play off. Agli spareggi abbiamo perso, rimanendo in C. C'era sempre lo stadio pieno, un entusiasmo contagioso. E' una grande risorsa per il Mantova il proprio pubblico. Se dovesse farcela a salire in B sarebbe il giusto premio alla passione di questa città".

Parlando della sua carriera di allenatore, lei ha una sua idea: un allenatore se vuole fare questo mestiere deve sempre sapere quello che vuole, andando fino in fondo.

"Ho iniziato presto a fare l'allenatore. Praticavo quello che era la mia esperienza da calciatore, rubando dei segreti dai vari allenatori che ho avuto. Il gioco era semplice: a uomo, quasi a sangue, ognuno prendeva il suo e chi prevaleva alla fine riusciva a vincere la partita. Ho fatto l'allenatore nei settori giovanili al Genoa e alla Spal. Da questa esperienza ho imparato a praticare il gioco a zona. Dietro questa evoluzione ho capito che giocando a uomo si fa molta più fatica correndo dietro all'avversario; chiaro che devi avere un tuo gioco, così ho che era meglio avere il possesso della palla, condurre il gioco. Ricordo che ho iniziato a giocare a zona contro la Fiorentina di Sacchi, quando io allenavo le giovanili della Spal e lui quelle dei gigliati. Nel gioco a zona, ognuno ha il suo punto di riferimento, chiaro che bisogna avere una preparazione fisica adeguata, un'organizzazione tattica di un certo livello, cercando di avere una dose di velocità nella costruzione dell'azione di un certo tenore, altrimenti si corre il rischio di perderla".

Cosa le piace del calcio di oggi?

"L'intensità di gioco è ammirevole, anche quando guardo le partite all'estero. Viene nobilitato il gioco soprattutto dai giocatori stranieri che giocano in Francia e in Inghilterra. Quando mancano questi protagonisti, il gioco diventa monotono. Quello che vedo adesso, in particolar modo nel campionato italiano, è l'organizzazione a livello tecnico, anche delle piccole squadre. Queste ultime riescono a tenere un ottimo possesso palla, mettendo in difficoltà anche club di un certo blasone. Anche piccole realtà come l'Empoli o lo stesso Sassuolo, hanno un'organizzazione a livello tattico che può mettere in crisi una squadra più forte e se non stai attento, anche al novantesimo possono colpirti"

Cosa non le piace del calcio di oggi?

"Finché il campionato non entrerà nel vivo, se ne gioveranno tutti. Quando le cose cambieranno, con le posizioni di classifica che non consentono più certi svolazzi a livello di gioco, anche la qualità tenderà a scendere. Fino ad ora è un campionato bellissimo: qualsiasi squadra può battere un'altra".

Meglio giocare o allenare?

"Giocare comporta meno responsabilità. L'allenatore moderno deve far fronte a tante difficoltà. Deve mantenere i rapporti con la società e la squadra, inoltre se non ha la personalità, davanti alla televisione cominciano a criticarlo e se non ottiene risultati, subito è pronto un altro al suo posto. Adesso è più difficile fare l'allenatore rispetto ad un tempo. L'ideale sarebbe giocare fino a sessant'anni".

Siamo noi troppo romantici o è il calcio che ha perso quella passione di un tempo?

"Sono milanista, sono un romantico e penso sempre al vecchio Milan che dominava le partite, giocava un calcio spettacolare e vinceva. Oggi non si capisce perché più si spende e più non riesce a venirne a capo. Il maggiore equilibrio di questo campionato porta club come il Sassuolo a fare capolino nelle posizioni di vertice in classifica. E' una bella sorpresa".

C'è un errore nella sua carriera che non rifarebbe?

"Si, uno c'è. Allenavo il Suzzara in C2 e giocammo contro l'Ospitaletto - stagione 1986/87 - allora allenato da Maifredi. Vincemmo 2-0 in trasferta: in tribuna c'era Beppe Pavone, allora Direttore sportivo del Foggia. Mi fece la proposta di andare al Foggia. Io purtroppo ero attaccato a casa mia, facevo fatica a pensare di andare via da qui: avevo anche due figli. Rinunciai, preferendo rimanere qui. Infatti la mia carriera si è poi contraddistinta in questo circuito di città come Carpi, Modena, Ferrara, Mantova, Suzzara, Fiorenzuola. Forse, se avessi accettato la mia carriera sarebbe cambiata. Comunque, nonostante questo errore, se così vogliamo chiamarlo, posso ritenermi soddisfatto di quello che ho fatto".

Un'altra bella soddisfazione è vedere il Carpi in A. Lei lo portò in C1 nel 1988/89.

"E' un'altra piccola soddisfazione che mi porto dietro. Con gli anni si sono strutturati e sono riusciti ad arrivare fino in A. Dispiace per l'allenatore Castori: dopo tutti i sacrifici fatti, la soddisfazione di guidare la squadra nell'intera stagione in A poteva averla. Lo sapevano tutti che il Carpi avrebbe trovato delle difficoltà nei primi mesi, ma non si è voluto attendere. Cosa che invece non è accaduta al Chievo, giusto per fare un esempio: il club scaligero fa la spola tra A e B perché ha una struttura societaria diversa. Purtroppo il problema maggiore di chi fa l'allenatore è quello di avere sempre la spada di damocle pronta a trafiggerlo. Non si è avuta la freddezza di attendere che le cose cambiassero".

E' un po' quello che manca al nostro sistema: la freddezza per compiere certe scelte.

"La realtà è una cosa, i sogni sono un'altra cosa. Pensare che certe squadre a certi livelli possano comportarsi in una certa maniera in una categoria di molto superiore alle proprie reali possibilità, è uno dei motivi che porta i presidenti a mandare via l'allenatore, convinto di avere una squadra più forte di quello che la realtà stessa dice".

Un tempo i presidenti, forse perché più attenti alle spese, raramente cambiavano l'allenatore.

"C'era un equilibrio diverso. Per mandare via un allenatore la squadra doveva essere contro l'allenatore. Cosa molto rara. Invece oggi, almeno dieci, quindici allenatori vengono licenziati. Si pensa di scaricare tutte le proprie responsabilità sull'allenatore".


Domande in ordine sparso prima di salutarci: il giocatore più forte che ha allenato?

"Ho avuto Sauro Frutti, un bomber come pochi. Una conclusione che faceva paura, una corsa poderosa. Nell'anno in cui con il Mantova facemmo i play off c'erano Pasa, Guzzoli, Pregnolato".

I vostri ritiri pre partita come li vivevate?

"A carte, oppure si giocava a ping pong. Le racconto un aneddoto: quando giocavo a Napoli, andavamo in ritiro a quaranta chilometri dalla città e come allenatore avevo Pesaola. Lui mi sfidava a ping pong: io non ero un granché, ma vedendo lui che era scarso, ci provavo. Ricordo che scommetteva belle cifre e perdeva. Più perdeva e più alzava la posta".

A Napoli ha avuto come presidente Achille Lauro.

"Noi giocatori lo vedevamo poche volte, era un grande personaggio. Ricordo che non parlava molto, però ogni sua parola aveva un certo peso. Se prometteva qualcosa, eri sicuro che l'avresti avuto. Per Napoli era un simbolo".

Prossima intervista per "Mi ritorni in mente": domenica 6 dicembre 2015