Tre indizi fanno una prova: il calcio italiano è vicino al punto di non ritorno. Cambiare si può, basta volerlo. Dalla C un barlume di speranza
Tre anni fa eravamo sul tetto d’Europa, ora già sbattuti fuori malamente dopo una figura pessima. Come al solito dopo le grandi delusioni ci si interroga sui problemi del calcio italiano, scervellandosi per capirne motivi e trovare rimedi. Riparte la retorica trita e ritrita sulla crisi di vocazione, sul fatto che i ragazzi di oggi passano giornate intere davanti agli schermi di un pc o a smanettare sullo smartphone anziché scendere in strada per giocare col pallone ma ci si dimentica che questo accade anche nel resto del mondo. Il nostro limite più grande, semmai, è che non si riesce a guardare più in là del giardino di casa. Già allora su queste righe chiedevamo di non disperdere la possibilità di servirsi di quel trionfo in larga parte inaspettato per avviare un percorso virtuoso e abbiamo visto tutti com’è andata a finire. Ma era nella logica delle cose, considerando la divisione netta tra le leghe professionistiche che invece di unirsi davanti a un tavolo si fermano alle dichiarazioni di facciata guardandosi bene dall'adottare un piano di sviluppo condiviso, pensando solo agli interessi di parte.
Emblematico il tema delle seconde squadre che non sono la panacea di tutti i mali ma, se utilizzate correttamente, una mano nella formazione possono darla. Dopo sei anni il progetto stenta a decollare: i club di Serie A sono scoraggiati dagli alti costi e dalla carenza di strutture adeguate. Negli ultimi mesi Atalanta e Milan si sono aggiunte alla Juventus ma le perplessità restano. In B la porta è chiusa a doppia mandata: vi è una ferma opposizione da parte della governance, che su questo punto non ha mai aperto al dialogo esprimendo da sempre una posizione fortemente contraria e siamo curiosi di capire cosa accadrà se, prima o poi, una si guadagnerà la possibilità di giocarci garantita dal regolamento. Scendendo al piano di sotto si obietta su quanto sia giusto sul piano etico concedere la priorità in sede di ripescaggio a una squadra neonata rispetto a chi quella categoria ha cercato di mantenersela con tanti sacrifici per tutto l'anno sudando fino all’ultimo secondo di un playout. Ogni riferimento alla Recanatese, vittima sacrificale di tale bizzarra situazione, non è puramente casuale. E non finisce qui perché in D non si fanno i salti di gioia per la novità appena introdotta che apre alla possibilità di retrocedere per il gap abissale in termini di competitività economica con Juventus Next Gen, Milan Futuro o Atalanta U23, espressioni di realtà che possono contare sui milioni della Champions League, difficile da colmare per chi ha budget decisamente più bassi. Mettere tutti d’accordo non è facile, eppure qualcosa si può fare.
Invece questo immobilismo, l'incapacità di prendere decisioni efficaci che poi a pensarci bene è la fotografia del nostro Paese, ci condanna a mandare giù l'ennesimo boccone amaro, il terzo da aggiungere alla seconda qualificazione ai mondiali mancata. Della serie un indizio è un indizio, due indizi sono una coincidenza, ma tre indizi fanno una prova. E allora cosa si fa? Di certo non si possono chiudere le frontiere come si faceva una volta ma è follia pensare a un meccanismo di valorizzazione per i calciatori italiani, sulla falsariga di quanto avviene già in B e C? La qualità di base nei settori giovanili c’è, i buoni maestri pure: del resto non si vincono Europei U17, U19 o si raggiunge la finale di un Mondiale U20 per puro caso. Ciò che manca piuttosto è il passaggio finale nella filiera, quel collegamento che dovrebbe essere garantito col passaggio in prima squadra, un po’ come accade per i giovani quando lasciano gli studi dopo un brillante percorso universitario per muovere i primi passi nel mondo del lavoro. Ormai non si contano più le potenziali promesse smarrite tra prestiti infruttuosi su e giù per lo Stivale. Si può essere o meno a favore delle seconde squadre ma il campionato Primavera così com’è ha poco senso e andrebbe ripensato, a maggior ragione se la gran parte delle rose è composta da stranieri. In B e C c’è un bacino immenso da cui attingere, basterebbe farlo con maggior coraggio, senza piegarsi alle pressioni del procuratore di turno che suggerisce il nome più esotico spesso destinato a rivelarsi un flop.
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