Giovani o diversamente vecchi? La dura vita del calciatore di Serie C

Nei giorni scorsi sono stati evidenziati con toni enfatici e una punta di malcelato orgoglio gli effetti positivi della Riforma Zola, caposaldo del secondo mandato Marani: il fine è quello di incentivare l’utilizzo dei calciatori provenienti dai settori giovanili con dei meccanismi premiali per le società e un ambizioso obiettivo temporale da raggiungere: far sì che ve ne siano almeno otto in ogni rosa a partire dalla stagione 2028/29.
In tempi grami come quelli nei quali stiamo vivendo ormai da un bel po’, con lo spettro della terza mancata partecipazione della Nazionale italiana ai Mondiali che aleggia sempre più minaccioso sullo sfondo, qualsiasi accorgimento che vada nella direzione di promuovere la linea verde viene accolto favorevolmente dall’opinione pubblica ma, al di là di spot e lodevoli buone intenzioni, è sempre bene porsi delle domande per capire il fenomeno più in profondità.
Siamo sicuri che sia questa la strada più efficace per migliorare la qualità generale e la vastità del bacino dal quale far attingere i nostri selezionatori? O non vuol dire piuttosto in alcuni casi mandare allo sbaraglio ragazzi non ancora pronti, soltanto per l’esigenza di far cassa viste le limitate disponibilità economiche e le mille difficoltà tra le quali doversi barcamenare per sopravvivere in una categoria da lacrime e sangue, nella quale le spese superano nettamente i ricavi. E che senso ha tutto questo se poi i club di A, anziché privilegiare il prodotto italiano vanno a puntare le proprie fiches su mercati esotici, bilanciando l’elevato rischio di un fallimento sul piano tecnico col minor esborso da sostenere legato a un prezzo di acquisto più conveniente?
Il recente flop dell’Italia U20 nella rassegna cilena è passato quasi sotto traccia, ma per le modalità con le quali è maturato non è di certo un segnale incoraggiante: vent’anni fa sarebbe stato impensabile prendere una ripassata del genere a livello giovanile dagli Stati Uniti, considerati anche con un po’ di sano snobismo italico patria di basket, football, baseball, hockey ecc. In parte è pure vero visto che il soccer non rientra nella top 5 degli sport a stelle e strisce mentre dai noi il calcio è considerato alla stregua di una religione, al comando per distacco anche nella narrazione dei media rispetto a discipline che regalano invece ben altre soddisfazioni.
La differenza però è che mentre noi siamo rimasti fermi, cullandoci sugli allori di floride generazioni mai più riviste, gli altri si sono evoluti spingendosi oltre i propri limiti strutturali. Parliamo di una realtà profondamente diversa da quella europea, un sistema chiuso senza promozioni e retrocessioni con tutti i pro e contro del caso, ma un dato spiega abbastanza bene il gap di esperienza certificato poi dal campo: 500 partite accumulate in MLS (il livello calcistico massimo negli USA) contro le zero dei nostri. E mentre la stellina Cremaschi prima di volare nel nostro campionato è cresciuto per tre stagioni al fianco di una leggenda vivente e tutt’ora in attività come Messi, il capitano degli Azzurrini Mannini si è affacciato al mondo del professionismo soltanto pochi mesi fa, ceduto in prestito dalla Roma alla Juve Stabia. Magari il primo di una lunga serie e poi chissà.
La verità è che a riempirsi la bocca parlando di giovani sono buoni tutti, ma serve in primis un drastico cambio di mentalità: ciò che conta davvero è la maniera nella quale vengono formati, ma soprattutto la capacità di lanciarli al momento giusto per farli restare stabilmente, per meriti propri, altrimenti rischiano solo di diventare carne da macello, mero strumento di guadagno nell'immediato e poi scaricati una volta perso lo status di under, alimentando il già nutrito esercito di svincolati lungo la penisola. Il ricorso al talento deve essere una cosa naturale e non si decide calcolatrice alla mano, quella è roba da commercialisti.
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