ESCLUSIVA TLP - Giovanni Simonelli: "Gli esoneri in Lega Pro? Un grande allenatore è quello pronto a morire in ogni momento"

Ci sono allenatori che parlano di calcio e uomini prestati al calcio che lo vivono come sospesi su una nuvola: Giovanni Simonelli fa parte di questa seconda categoria.
Affabile e attento a ciò che dice, non risponde alle domande, ma riflette. E il suo pensiero non si limita al semplice compitino, ma va oltre: "l'essenziale non è visibile agli occhi".
Tra qualche giorno compirà 63 anni, avido fumatore, vede nel calcio il proseguimento della passione di un bambino: "avevamo la radio a casa e ricordavo a memoria tutte le formazioni delle squadre di calcio. Quando arrivò la tv e c'era una partita della Nazionale, era un evento, che non appena si concludeva, sentivo le farfalle nello stomaco e dovevo subito prendere un pallone e rivivere quell'emozione".
Le sue rughe, fatte di anni di stress: "il calcio non l'ho mai vissuto come un lavoro", sui campi d'Italia non le vive tanto come esperienza: "sono un segno di vecchiaia".
Allenatore filosofo (laureato in lettere classiche), ha ancora l'entusiasmo di un bambino: "sono loro il futuro di questo sport".
Ci siamo chiesti se questa intervista esclusiva potrà interessare a Giovanni Simonelli: la sua risposta è nascosta dietro la sua citazione più famosa: "il calcio sarebbe una cosa straordinaria se non ci fosse la domenica". Noi siamo partiti proprio da qui.
Questa massima ci sembra un elogio alla teoria rispetto alla pratica.
"In effetti si. Ho sempre vissuto con molto tormento la partita, mentre avevo una gioia infinita dentro di me durante la settimana di allenamento; io ho sempre detto che il mio non era lavorare, anzi sono convinto che in vita mia non ho mai lavorato, malgrado abbia allenato per 35 anni. Malgrado abbia dato tutto me stesso per il calcio. Malgrado abbia studiato dalla mattina alla sera il calcio, ma per me non è mai stato un lavoro. Allenare per me è un piacere. E' una sorta di meditazione: quando uno è presente momento per momento alla propria esistenza, vivendolo con grande trasporto. La domenica come le dicevo, un po' meno".
Voglio pungerla: lei dice che non ha lavorato, però aveva davanti a sé un gruppo di giocatori che dovevano vederla come una persona credibile, gestire uno spogliatoio. Sarà anche stato bello e piacevole, ma lo stress è innegabile.
"Quando mi guardo allo specchio mi vedo pieno di rughe. Vedo un viso tormentato e credo che sia l'effetto di tanti anni di stress".
Pensa che quelle rughe sono anche un segno della sua esperienza?
"Veramente penso che siano i segni della vecchiaia".
I suoi colleghi da noi intervistati parlano di un calcio in continua evoluzione, non si ferma mai. Le chiedo di fermarci adesso, in questo istante: dove sta andando secondo Giovanni Simonelli il calcio?
"Non riesco a darle una risposta perché non mi sono mai posto questa domanda. Però questa sua domanda mi fa pensare a quanto è bello vedere il calcio della Nazionale, del Napoli, della Fiorentina stessa. Non parlo dal punto di vista tecnico o tattico, ma come coinvolgimento emotivo, come senso di appartenenza ed entusiasmo e lo vedo come un modo per tornare bambini. Ricordo - mio malgrado tanti anni fa - che quando ero bambino, in televisione non c'erano le partite, al massimo la Nazionale quando scendeva in campo. Quando c'era questo evento, subito dopo la partita sentivo le farfalle nello stomaco, prendere il pallone e scendere nel cortile a giocare. Il calcio, visto da quest'ottica non muore mai. Potrà morire dal punto di vista concreto, nel senso che non ci saranno più soldi: dovunque si giochi una partita di calcio, questa magia, questo mistero, credo che non scomparirà mai".
Lei pensa che il calcio debba ripartire dai bambini?
"Si, credo che sia la soluzione migliore. E' l'aspetto sociale che è condizionante, per cui è difficile. Io credo molto nel ruolo dell'allenatore e per farle un esempio di quello che dico, prenda l'entusiasmo di Antonio Conte: sembra un ragazzino, sembra uno che gioca ancora a calcio quando segue la partita e questo è coinvolgente. Al di là della sua bravura come tecnico, questo è fondamentale. Vedo l'entusiasmo di Sarri; la sua umiltà e la sua forza. E se mi permette, è un piacere vedere giocare le loro squadre".
Rimanendo nell'ambito delle riflessioni altrui: ci sono troppi allenatori e pochi maestri di calcio.
"Io cerco di fare una distinzione: dal punto di vista tecnico sono d'accordo. I "maestri", quelli che amano insegnare e hanno studiato il calcio, che sentono dentro di loro l'esigenza di soddisfare il senso estetico della propria esistenza attraverso il calcio, l'armonia attraverso il calcio, ce ne sono pochi. Altri tipi di maestri, come quelli di vita o gli educatori, non riesco a concepirli in senso assoluto e mi fa un po' sorridere e la trovo anche abusata come definizione. Come se ci fosse un modo per educare, attraverso le parole, attraverso i discorsi. Ci può essere qualche educatore, ma può esserci nella misura in cui ha preso coscienza di sé, ha accettato se stesso e soprattutto la parte buia di sé, per cui ha capacità di comprendere se stesso e gli altri: senza dare ricette assertive su come bisogna comportarsi, su come bisogna essere. Chi ha la capacità di comprendere se stesso e gli altri, dà all'altro la possibilità di legarsi alla propria vera natura".
Parliamo un po' di lei: perché il calcio e non un altro sport?
"E' un retaggio antico, da bambino. Quando avevo 7 anni, c'era solo la radio a casa e conoscevo a memoria tutte le formaizoni delle squadre: il Torino, il Napoli e tutte le altre. E' una passione antica, un legame antico. Tra l'altro mi sento di essere grato al calcio per avermi salvato dalla follia. Da bambino non era facile vivere in un paesino della Campania, in una famiglia borghese piena di pretese".
Perché Gianni Simonelli è fermo? Se lo chiede ogni tanto?
"No guardi, sono fermo per una mia scelta".
Ci faccia capire: l'hanno chiamata ma ha rifiutato?
"Si, l'anno scorso mi hanno chiamato ma non ho accettato perché non avevo entusiasmo. Adesso mi sento di averlo e sono pronto a mettermi in discussione, purché ci sia un progetto credibile e senza sentirmi ossessionato se non dovesse arrivare".
L'entusiasmo dentro di lei da dove nasce?
"L'entusiasmo nasce dall'infinito desiderio di soddisfare il mio senso estetico attraverso il calcio. A me piace vedere una squadra che si muove in un certo modo, che gioca in un certo modo e questo tipo di entusiasmo non si estingue mai".
Lei ha sempre portato avanti la teoria che l'allenatore in una squadra di calcio conti al 100%.
"Ne sono ancora convinto. Dal punto di vista emotivo e psicologico, che poi è l'aspetto più importante in una squadra di calcio. Se non ci fosse un clima salubre all'interno dello spogliatoio, se non ci fosse credibilità e fiducia all'interno dello stesso, questi sono tutti ingredienti di cui è responsabile il tecnico. Mi spiego ancora meglio: non è fondamentale dal punto di vista tecnico e tattico, ma dal punto di vista emotivo. Come nella vita di tutti i giorni".
Lei in un intervento a Coverciano nel corso di un convegno: "L'essenziale non è visibile agli occhi". Nel calcio italiano però l'essenza sono i risultati.
"Il risultato molto spesso è l'effetto di quello che le ho detto. Quando gli ingredienti sono quelli di cui sopra, è difficile che non arrivi anche il risultato. Quando parlo di essenziale non visibile agli occhi, è proprio l'aspetto emotivo. Non si vede perché l'occhio superficiale non riesce a cogliere ciò che c'è dietro. Si possono vedere i gesti tecnici, la mossa tattica, ma non si va oltre".
Da cosa si riconosce un allenatore bravo?
"Da come gioca la squadra: se gioca con passione, entusiasmo, umiltà, solidarietà, tolleranza: vuol dire che dietro c'è un grande allenatore".
Una squadra di calcio nella visione di questo sport che ha Gianni Simonelli, potrebbe giocare senza allenatore?
"No! Glielo dico in maniera molto secca: no!".
Perché?
"L'allenatore è il traino e riferimento emotivo. I giocatori sono fondamentali e servono quelli bravi se si vuole perseguire degli obiettivi, però allo stesso tempo penso che le società dovrebbero investire sugli allenatori. I dirigenti dovrebbero essere bravi a riconoscere la bravura di un tecnico".
Spesso l'allenatore è giudicato da un imprenditore che magari fino a ieri ha lavorato nel campo della ristorazione e diventa presidente di un club. Dopo qualche sconfitta decide di esonerare il proprio tecnico, giudicando il suo lavoro senza neanche conoscere i dettagli di questo sport. E' una piccola ingiustizia, non crede?
"Sono d'accordo in linea di massima. Il calcio ha però la capacità di insegnare, soprattutto dal punto di vista umano: la capacità di convivere con l'altro in senso lato è un qualcosa di molto bello e profondo. Confrontarsi con la precarietà, con l'incompetenza, l'arroganza, con la superficialità, con il condizionamento. Aiuta a conoscersi meglio".
Quando i risultati non arrivano, non potendo licenziare tutta la squadra, si manda via l'allenatore. Il progetto di luglio, a ottobre già ha cessato di esistere.
"Questo è un altro aspetto di cui le parlavo prima: la capacità di convivere con quello che si dice e non si mantiene mai. Le parlavo della precarietà, sia concreta che emotiva che esiste nel calcio, come nella vita di tutti i giorni ed è fondamentale che uno la conosca nel cuore e non solo razionalmente. Quando una persona vive questa situazione razionalmente ci sta molto male, se invece la incamera nel cuore la vive in maniera diversa. Credo che un grande allenatore è quello che è pronto a morire in ogni momento".
Nel calcio manca la riconoscenza è una delle sue critiche a questo sistema.
"Non la chiamerei critica, ma una constatazione di un dato di fatto. Non credo nella riconoscenza, non mi interessa. A me interessa il rispetto di me stesso".
Non ha un bel rapporto con la tecnologia. Leggenda o verità?
"E' vero. Le sto parlando con un telefonino che costa meno di 50 euro. E' indistruttibile: una volta mi è caduto dal terzo piano e non si è rotto. Questo è un mio limite, ma cercherò di imparare".
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