ESCLUSIVA TLP - Mi ritorni in mente: Marco Maestripieri

Nelle pagine più belle del calcio molisano, il nome di Marco Maestripieri è scritto a caratteri cubitali. Dieci anni con la maglia del Campobasso (a cavallo tra la fine degli anni '70 e gli anni '80), Capitano indomito di una squadra che ha fatto sognare una regione intera, quando "U' Campuash", detto in dialetto stretto, militava in serie B e dava filo da torcere agli squadroni del nord, quando il "Romagnoli" era stracolmo ogni domenica di passione rossoblù, colori sociali del club. Si parla degli anni '80, quando tutto era completamente diverso da oggi, la radiolina regalava le uniche emozioni che uscivano dallo stadio, con la mano poggiata all'orecchio e il vicino che ti infastidiva per sentire le notizie dagli altri campi, per poi dimenticare tutto e abbracciarlo nel momento di gioia.
Marco quegli anni li ricorda molto bene, li ha vissuti e ha respirato quell'atmosfera magica che a Campobasso cominciava la domenica mattina, quando la gente di tutti i paesi del Molise, in pullman partiva per vedere le partite degli eroi in maglia rossoblù. Un'intera regione palpitava insieme a loro, i ragazzi in casacca rossoblù erano la rivincita di una città e di una regione che senza calcio non avrebbe mai potuto farsi conoscere come realmente è accaduto, al punto da arrivare a fare un torneo amichevole in Canada. Cose che Marco racconta con orgoglio perchè le ha vissute in prima persona.
Gli anni sono passati, il calcio giocato ha lasciato spazio ai ricordi di una carriera tutto sommato soddisfacente, dove poteva accadere di calcare i campi della serie A, ma lui ha sempre rifiutato rimanendo fedele a quei colori che tanto affetto ancora gli procurano, specie in questa nostra lunga chiacchierata, dove la sua molisanità esce fuori senza sconti. Nato a Terni nel 1956, arriva in Molise dalla Sangiovannese, dove quell'anno in D (parliamo del 1978) si rivelò uno dei giovani più interessanti del panorama nazionale, tanto da far muovere la Lazio che su di lui mise gli occhi, tanto da dirottarlo a Campobasso, con un diritto di opzione su di lui. Il club capitolino spese bei soldini per esercitare quel diritto, poi fatto decadere e da lì inizia la storia di questo giocatore con la maglia rossoblù.
Partiamo dalla sua carriera con la casacca del Campobasso, la sua seconda pelle in questa nostra intervista esclusiva per lo spazio redazionale di TuttoLegaPro.com, dal titolo evocativo "Mi ritorni in mente", arrivato al suo diciassettesimo appuntamento, dedicato a quei giocatori (ma non solo) che hanno fatto la storia dei club attualmente militanti in Lega Pro.
Marco, attualmente di cosa ti occupi?
"Sono istruttore generale a Coverciano. Mi occupo di preparare gli allenatori che poi vedi sulle panchine dei campi di calcio. Faccio questo mestiere da quasi 13 anni, da quando decisi io stesso di lasciare il mio ruolo da allenatore, intrapreso dopo aver appeso gli scarpini al chiodo".
Quale l'ultima società che hai allenato prima di lasciare?
"Era il 2000/01, ero al Nardò in serie D, da allora decisi di intraprendere questo ruolo, che mi dà parecchie soddisfazioni".
Visto che ci siamo, ci spieghi come funzionano i patentini per fare l'allenatore?
"Con piacere. Partiamo dal fatto che esistono tre tipi di patentini. Il primo si chiama "Uefa B" utile per poter allenare dalle giovanili alla serie D, c'è poi quello denominato "Uefa A" e con questo sei in grado di poter dirigere squadre dalla 2^ Divisione alla Serie A. C'è l'ultimo patentino e si chiama "Uefa Pro", con questo sei in grado di allenare in tutti i paesi riconosciuti dalla Fifa".
Sappiamo che sei anche un insegnante universitario.
"Vero! Insegno tecnica e tattica didattica all'ateneo di Campobasso".
Marco è persona molto alla mano, quando si parla degli anni in cui giocava, lo senti sorridente e felice di parlarne, tanto da dire: "Mi fai tornare indietro nel tempo, era tutto più bello, ma che voj fa, l'anni passano", con quel suo accento ternano che non è mai scomparso del tutto e che lo rende ancora più genuino nel suo modo di esprimersi.
Sei soddisfatto della tua carriera?
"Sì, non mi posso lamentare, perchè in fin dei conti ho fatto quello che mi piaceva maggiormente e non l'ho mai vissuto come un lavoro, perchè mi divertivo e davo soddisfazione alla gente che veniva a vederci. Non c'è cosa più bella. Quello che facevi era tutto di guadagnato, proprio nell'ottica che quello non era propriamente un mestiere. Ho avuto la fortuna di conoscere tantissima gente e di molti conservo ancora un bel ricordo".
Ti manca un po' il calcio?
"Lo vivo da dentro, c'è un'enorme soddisfazione in quello che faccio, perchè quando vedi un tecnico che hai preparato arrivare in alto la gioia è tanta: significa che hai lavorato bene e i risultati suoi sono anche un po' merito tuo".
Vogliamo parlare del Campobasso?
"Parliamo della mia seconda pelle, una seconda moglie, che non ho mai tradito. Amo questa città, adoro questa gente. Devo molto al Campobasso, perchè qui ho vissuto anni fantastici, con persone che mi vogliono bene. Non potrei mai dire addio a questa terra, anche se sono ternano di nascita. Qui mi sono sposato e ho fatto crescere i miei figli".
Quale ricordo hai degli anni in maglia rossoblù?
"Così mi fai commuovere, ovvio che ho ricordi bellissimi. Era un'altra epoca - pensa cosa ti arrivo a dire - per giocare a calcio dovevi dimostrare di saperci fare altrimenti potevi trovarti un lavoro. Sono stato fortunato perchè ho vissuto la serie B, quando la cadetteria era frequentata da squadre del calibro di Milan, Bologna, Lazio, Torino. Se ci penso era una serie A altro che serie B. Erano gli anni in cui il Campobasso era al top nella sua storia ed io ho fatto parte di quel gruppo storico. Vado molto orgoglioso di questo".
Cos'aveva quel calcio che questo non ha?
"Era semplice: c'erano le voci di Enrico Ameri e Sandro Ciotti (radiocronisti Rai) che ti facevano compagnia quando entravi in campo. C'era la genuinità di un calcio dato e ricevuto senza le tante manfrine di ora che mi fanno venire la nausea, nemmeno pensassimo che il calcio fosse uno sport per femminucce. Quando giocavo, c'era la sportività, bastava una stretta di mano, mentre . attualmente - i contratti stipulati oggi, stasera già non valgono più nulla".
Molti ex giocatori che abbiamo intervistato, dicono sempre: per giocare a calcio quando c'eravamo noi, dovevi saper trattare il pallone con una certa abilità.
"Certo, un po' il prosieguo di quello che ti dicevo prima. C'era gente cui non davi due centesimi di valore, ma giocava il pallone che era un piacere vederla giocare. Per giocare in C, ed una serie C con gli attributi non quella di oggi, dovevi dimostrare di valere".
Se ti dico una data: 13 febbraio 1985, cosa ti viene in mente?
"Data storica per il Campobasso e per il Molise tutto. Quel giorno si inaugurò lo stadio "Romagnoli" e ci fu la partita di Coppa Italia Campobasso-Juventus (finì 1-0 per i molisani, con un autorete di Pioli). Non ricordo di aver mai visto tanta gente sugli spalti, c'erano almeno 40 mila persone ed almeno altre 4-5 mila erano fuori senza biglietto. Atmosfera unica e irripetibile, c'era il commendator Di Stefano (uno dei dirigenti di allora) il quale mi disse che quella sera il Campobasso incassò una cifra astronomica (si parla di 350 milioni di quel tempo, qualcosa come 500 mila euro di oggi). Ancora oggi se ci penso mi si accappona la pelle. Non ti dico il boato al momento del gol, per poco non veniva giù lo stadio, da brividi, da brividi!".
Hai un ricordo in particolare di quella partita?
"Sì ed è un ricordo meraviglioso, perchè mi feci la foto con un campione con la C maiuscola: Gaetano Scirea. Uomo e calciatore come pochi. Ancora oggi conservo il ritratto in camera mia. Una persona così servirebbe come il pane per il calcio attuale".
Marco, noi qui vogliamo anche parlare di qualcuno che non c'è più e che aveva, come te, il Campobasso nel cuore.
Non facciamo in tempo a finire la domanda, già sa di chi vogliamo parlare: "Michele Scorrano vero? Per me era e rimarrà Michele, il grande Michele. Ancora oggi non credo che ci abbia lasciato, secondo me è ancora qui, accanto a noi e la domenica siede sugli spalti a tifare Campobasso".
I più giovani non sanno di chi stiamo parlando. Traccia un ricordo di Michele Scorrano.
"Michele era unico, era un difensore di quelli tosti. Era bravo nell'uno contro uno, raramente lo superavi e quando capitava, sapeva sempre come fermarti. Ci siamo capiti no!? (e giù una risata rotta dalla commozione). C'è un aneddoto che voglio raccontarti. Eravamo in tournée in Canada e facemmo una partita amichevole contro la nazionale di Tahiti. Loro la misero sul fisico e ad un certo punto, visto che l'arbitro non riusciva a tenerla a bada, nacque una rissa. Io ricordo che c'era un capannello di giocatori, mi avvicinai per capire cosa stesse accadendo e vidi Michele che ne teneva due per il collo, una cosa spaventosa. Vederlo andar via in quel modo mi fa rimanere ancora oggi senza fiato".
Questo è stato uno degli attimi dell'intervista in cui Marco Maestripieri perde quel sorriso che ci ha accompagnato in tutta l'intervista. Per lui Michele Scorrano ha rappresentato più di un compagno di squadra: "Quando andò via lui, divenni il capitano, quindi tu pensa che responsabilità che avevo sulle spalle. Fiero di avergli voluto bene e ancora oggi gliene voglio".
Marco, per i molisani c'è un'altra data che non si potrà più cancellare: il 31 ottobre 2002 (il terremoto che colpì San Giuliano di Puglia, dove morirono 27 bambini e una maestra).
"Un giorno brutto, non ci sono parole. Ancora oggi rimane quel silenzio spettrale quando passi davanti al luogo della tragedia. Ti rendi conto che quei bambini erano figli tuoi, non rimani mai indifferente dinanzi ad una morte così assurda. Due anni fa abbiamo deciso con i bambini di una scuola calcio di Campobasso di fare una partita contro i bambini di San Giuliano di Puglia. Fu una bella festa, poi andammo anche al cimitero e lì non me la sento di dirti cos'ho provato perchè altrimenti non andiamo più avanti".
Comprensibilmente la sua voce si è rotta, il silenzio di qualche momento e poi dice: "Mi fate emozionare così". Un sorriso segue il suono di queste parole, segno che si può proseguire.
Marco, torniamo a parlare di quando giocavi: com'era la gavetta un tempo?
"Tosta, bella e importante. C'era il rispetto per i vecchi del gruppo. Quando entravi in uno spogliatoio, non potevi fiatare, perchè i leader sapevano imporre le regole anche solo con gli occhi, oggi invece è tutto diverso, non mi meraviglio mica: basta guardare la gioventù di oggi".
C'è stata qualche possibilità che tu lasciassi Campobasso?
"Sì sì, ma il presidente (Antonio Molinari) mi diceva sempre: Marco ma dove vai, tu devi essere la bandiera di questo Campobasso. Non me ne pento, amo questi colori e se sono rimasto, l'ho fatto con il cuore".
Ti ricordi la tua prima rete con la maglia rossoblù?
"Certo che me la ricordo: era un Salernitana-Campobasso, vincemmo 4-0 e feci gol a un certo Walter Zenga, che esordiva nei professionisti con la maglia granata. Ti parlo della fine degli anni '70 (più precisamente il 1979, ndr). Quella fu la classica partita in cui tutto ci riuscì bene, presi pure una traversa. Se penso che a distanza di anni feci gol al portiere che poi ha fatto i Mondiali (Italia 1990), rimane un bel ricordo".
Il gol più bello?
"Ce ne sono tre che porto nel cuore. Uno al Pescara in tuffo di testa, mentre l'altro, contro l'Atalanta, di sinistro - io che ci cammino soltanto - al volo con la palla che ha preso l'incrocio e poi l'ultimo contro la Casertana, di esterno destro".
Un avversario di cui porti un ricordo indelebile?
"Senza dubbio: Michel Platini. Era un vero campione, in campo aveva una classe che tu lo potevi solo ammirare e io posso dire di aver giocato contro un mostro sacro del calcio di tutti i tempi".
Marco, l'intervista è finita, vuoi aggiungere qualcosa?
"Intanto ringrazio voi perchè per un paio d'ore mi avete fatto tornare giovane e vitale come quando giocavo a calcio. Poi voglio togliermi un sassolino: Michele Scorrano è stato la storia del Campobasso e quando sento che gli si vuole dedicare la curva dei tifosi, rimango un po così, di sasso. Ad uno così devi intitolare lo stadio, non un settore dello stadio. Ho sentito troppi politici dire che la cosa fosse fattibile, ma al momento rimangono solo chiacchiere. Ci vuole più rispetto per chi ha realmente fatto la storia del club e della città".
Prossimo appuntamento con "Mi ritorni in mente" domenica 11 novembre.
Testata giornalistica Aut.Trib. Arezzo n. 7/2017 del 29/11/2017
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