ESCLUSIVA TLP - Mi ritorni in mente: Marco Nicoletti

ESCLUSIVA TLP -  Mi ritorni in mente: Marco NicolettiTMW/TuttoC.com
© foto di Federico De Luca
domenica 2 settembre 2012, 22:37Interviste TC
di Daniele Mosconi

Immaginate una poltrona, due amici che chiacchierano amabilmente degli anni che passano e dei ricordi che vogliono far rimanere verdi, ma dentro di loro assumono il color seppia delle foto ormai sbiadite. Questa è la cornice che ci appariva mentre parlavamo con Marco Nicoletti, attaccante del Como tra la fine degli anni '70 e gli inizi degli anni '80, protagonista di questo 12° appuntamento con "Mi ritorni in mente", la rubrica redazionale di TuttoLegaPro.com che vuol rivivere e far conoscere i giocatori che hanno lasciato più di un ricordo nelle città che attualmente militano in Lega Pro. Marco è persona squisita, si mette subito a nostra disposizione per questa intervista esclusiva, squarciando fin da subito il velo dei falsi infingimenti. Schietto, alle volte ruvido, mai banale, questo è stato con noi Nicoletti.

Attaccante dal tocco di palla vellutato, capace di regalare gioie indimenticabili anche a distanza di tanti anni alla città di Como, giocando 151 partite e segnando 35 reti. Visti oggi, quei gol sembrano pochi, ma allora quel numero significava avere le basi per essere considerati bomber (si vinceva la classifica cannonieri con 14 gol, alle volte anche meno).

Quando giocava, c'era ancora Paolo Valenti che conduceva "90° minuto". Preistoria per alcuni, nostalgia per tanti. Quegli anni sono rivissuti tramite le sue parole e chi, come noi, ha qualche anno di vita trascorsa, proverà la sensazione di tornare indietro nel tempo e sentirsi più giovane, grazie al coinvolgimento che Marco ci mette nel raccontarci quel calcio, magari povero di telecamere, ma ricco di umanità, quella stessa che non si trova più e diventa causa di nausea per chi, ora vorrebbe che quella macchina infernale creata ad hoc da molti che non sanno com'è fatto un pallone, si fermasse un istante a rivivere l'atmosfera di quel tempo andato. Gli diamo del lei, ma subito ci ferma: "No, voglio sia una chiacchierata tra amici, non un rapporto informale". E giù una risata, a smontare quel clima che si crea spesso nelle interviste.

Ciao Marco, sappiamo che ti occupi anche di terzo settore: sei impegnato con i disabili

"Si, nel tempo libero mi metto a disposizione per aiutare dei ragazzi meno fortunati. E' una cosa molto bella che faccio con immenso piacere, perchè bisogna provare a dare qualcosa a loro per capire quanto ti arricchisce un'esperienza simile".

E' molto orgoglioso quando ci parla di questo suo "impegno". La sua voce scivola calma, ma in alcuni frangenti si vede che l'emozione prende il sopravvento.

Attualmente dove lavori?

"Fino allo scorso giugno ho allenato le giovanili della Cremonese. Da un paio di mesi alleno i ragazzi del Grumello Cremonese, squadra di 1^ Categoria lombarda. Il contatto con il calcio non si perde mai".

La chiacchierata è limpida, passionale. Così prendiamo il treno del tempo e cominciamo a viaggiare in quegli anni, quando tutto aveva un sapore diverso.

"I ricordi di quel calcio? In prima battuta mi verrebbe di dire che era sicuramente più genuino, più semplice. Mentre sul campo era più fisico, erano battaglie nel vero senso della parola. Quando trovavi un difensore che te la giurava, sapevi che quella domenica la sfida era a farlo impazzire. Se però gli capitavi sotto, erano guai".

Mentre oggi come vedi il livello?

"Ora è tutto diverso, lo spettacolo è fatto da forza fisica e velocità. Quando giocavo io, ricordo che la prestanza atletica contava poco o niente, potevi essere bassino o grassoccio. Tu pensi, se li guardi ora: ma come poteva far calcio uno così? Poi lo vedevi in campo e la palla te la nascondeva. Parlando di questo, voglio farti un esempio..."

Prego, prego ...

"C'era Gianfranco Matteoli (ex centrocampista dell'Inter negli anni '80, protagonista della squadra che fece il record di punti con mister Trapattoni, quando ogni vittoria dava due e non tre punti, ndr). Molti osservatori di quel tempo stentavano a credere che lui potesse giocare a calcio. Eppure quando aveva il pallone tra i piedi, era un piacere vederlo far partire dei lanci da una parte all'altra del campo, eppure era alto quasi come Giovinco".

Mentre oggi cosa vedi di cambiato?

"Tutto è basato sulla formazione di atleti, non si cura più l'aspetto ludico del calcio. Si ingabbiano i talenti che sanno toccare il pallone in schemi preconfezionati. Ho sempre cercato nel mio modo di insegnare calcio, di non rinchiudere quelli - i classici numeri 10 di una volta - che sanno giocare a calcio, in queste scatole per tonni. Se ad un ragazzino togli la voglia di correre e divertirsi, gli hai tolto il divertimento".

Non ti viene la nostalgia di quel calcio quando pensi queste cose?

"Oddio, se ci penso si! Si puntava molto sulla genuinità, sulla spontaneità, mentre oggi anche le interviste sembrano finte. C'erano meno personaggi ambigui, la parola data era quella, non si tornava indietro. In squadra c'erano 15-16 giocatori, ed erano anche troppi perchè spesso erano anche meno. Eravamo tutti italiani, ma non è un discorso qualunquista il mio o razzista, perchè mi rendo conto che è difficile trovarsi in uno spogliatoio dove ci sono venti persone di venti nazioni diverse. E' difficile creare un gruppo solido come accadeva quando giocavo io. Ma poi era tutto diverso, c'era il rispetto dei ruoli che oggi viene completamente stravolto da gente che con il calcio vuol solo far soldi. C'erano anche gli schiaffi, ma lo spogliatoio era inviolabile".

Mentre oggi hanno infranto anche questo tabù.

"Vedi, quello è un luogo inviolabile da tutti, persino dal magazziniere. Se qualcuno faceva lo stronzo, sapevi che tutto era relegato a quelle quattro mura. C'era la consapevolezza di essere fortunati a giocare a calcio e guadagnare cifre simili, di fare in un certo senso la vita mondana, quindi sapendo di essere tutti sulla stessa barca, avevi il senso del limite delle cose. Se poi capitava, ed è capitato, che qualcuno non capisse - magari qualcuno nuovo - allora c'erano tanti modi per fargli ritornare il lume della ragione".

Siamo passati da Paolo Valenti alle telecamere ovunque.

"Credo che ad un giovane di oggi, se gli parli di Paolo Valenti, Gianni Vasino o Tonino Carino da Ascoli, non sa neanche di cosa parli. Lui non vedrà mai la poesia della radiolina, delle partite tutte insieme la domenica, con Enrico Ameri (storico radiocronista Rai) che era sempre sul campo principale, ma vedrà solo business. Tanti giovani non riescono a vivere il calcio come un catalizzatore di valori positivi, ma come un 'riempi tasche' di denaro. Il problema di fondo è un altro: sono finiti i soldi. Non è un male, visto che puoi avere quanti soldi vuoi, ma se perdi la bussola in testa è la fine. Il denaro non trasmette quei valori di cui c'è tanto bisogno ora, perchè un giovane senza valori non ha assolutamente futuro".

Nella tua carriera da calciatore, c'è più spazio per il rammarico o per il rimpianto?

"Non penso che una delle due ipotesi abbia pesato maggiormente. Ho fatto una discreta carriera, trovando fortunatamente società serie. A Como e Cremona ho trovato presidenti che erano uomini con la U maiuscola. Magari non guadagnavi le cifre che si guadagnano ora, però sapevi di non aver problemi per lo stipendio, a differenza di ora dove molte società sono in difficoltà fin dal primo mese".

C'è foga, passione, gioia nel ricordare gli anni della sua carriera: "Sono stato capocannoniere in B con 13 reti (campionato di B 1979/80) in 36 partite. Magari uno legge: solo tredici gol, ma vi assicuro che in quegli anni le difese erano composte da "assassini". Tu sapevi toccare il pallone, loro sapevano come farti male. Quando con il Como siamo saliti in A (1979/80), c'era la Juventus che si era interessata a me. Il club bianconero disse di volermi vedere un anno in A per capire di che pasta ero fatto. Quell'anno nella massima serie feci sei gol, così loro dissero di aspettare un'altra stagione. Se avessi potuto andare fin da subito con loro magari non sarebbe cambiato nulla, ma intanto fammi andar lì, poi vediamo".

Tu hai anche vissuto la Serie C. Com'era in quegli anni?

"Un vero inferno! Certi campi erano delle polveriere, dentro e fuori. Se ci penso ora, mi vien da ridere, ma allora era davvero pericoloso giocarci. C'era la spensieratezza dell'età, così li minacciavi con lo sguardo e gli atteggiamenti da duro, ma certe minacce e certi episodi a distanza di anni, ancora oggi mi rendono inquieto".

Certe situazioni, non di pericolo per l'incolumità, ma "borderline" sarebbero utili anche per molti giovani? Che differenze noti tra la gavetta di oggi e quella che ha fatto tu?

"Tutto completamente diverso. Un altro mondo. Oggi nei settori giovanili si gioca in un calcio in prevalenza pulito. Sei più tutelato anche a livello regolamentare. Un ragazzo credo faccia più gavetta in Eccellenza in alcune realtà del sud che in Primavera. L'anno dopo, quando torni in squadra, gli altri ti sembrano fighette".

Ti piace allenare?

"E' bellissimo, perchè dai qualcosa di te. Ritengo che sia erronea l'idea che ci si fa dei giovani: loro non devono servire a te per far carriera, ma l'esatto contrario. Non ho ambizioni personali per allenare in A B o C, quello che mi preme di più è insegnare loro tutto quello che ho imparato. Non c'è soddisfazione migliore".

Come è capitato con tutti i nostri ospiti, quando gli si chiede un ricordo della loro esperienza con le casacche che li hanno resi "miti" nelle squadre in cui hanno giocato, li senti sempre perdere un po il tono di voce, rotto dall'emozione. La stessa cosa accade anche con Nicoletti. Si perde in un sospiro fatto di silenzio, con i suoni all'esterno della nostra conversazione, che per rispetto, quasi si fermano.

"Sapevo che mi avresti fatto questa domanda. Questa chiacchierata ha riacceso i bei ricordi mai sbiaditi, magari lontani ma troppo belli. A Como ho iniziato a giocare che avevo 17 anni e sono andato via a 24 anni e mezzo. Vedi te se non ho ricordi belli di quella maglia! Il gol salvezza che feci, al primo anno in A contro il Bologna. Sono orgoglioso di aver indossato solo due maglie nella mia carriera (ha giocato anche nella Cremonese). Un orgoglio che deriva dall'affetto che provavo per quei luoghi, i rapporti con i tifosi, la gente che ti faceva sentire importante".

Si sta emozionando troppo e si sente che il magone si sta tramutando in un commosso rigo di lacrima sul volto: "Ringrazierò sempre il destino di aver potuto giocare in città che mi hanno amato con i miei pregi e i miei difetti".

Finisce qui questa intervista con Marco Nicoletti. Un'ultima cosa, un retroscena: Marco, quando lo abbiamo chiamato era in ospedale, a causa di un incidente, ma nonostante ciò, ha voluto lo stesso rilasciarci questa intervista, divertendosi molto e ringraziandoci per averlo fatto tornare indietro nel tempo. Noi ringraziamo lui, perchè la sua passione ci ha fatto capire che il calcio ancora sa vivere di poesie belle come la sua.

L'appuntamento con "Mi ritorni in mente" è per domenica 16 settembre.