ESCLUSIVA TLP - Mi ritorni in mente : Andrea Bellini

Tra le tante storie che da circa tre anni vi raccontiamo con gli occhi dei protagonisti di "Mi ritorni in mente", quella di Andrea Bellini è la classica storia italiana. Nel paese dei campanili, la sua carriera ne è stata uno dei simboli. Se volessimo elencare tutte le rivalità che ogni regione ha dentro di sé, non ci basterebbe un appuntamento di questo spazio per elencarle tutte. Andrea Bellini nasce a Prato il 24 maggio del 1966 e con i lanieri apre la sua carriera da calciatore. Lasciamo da parte questo aspetto e spostiamoci di una decina di chilometri e più precisamente a Pistoia, la città dell'olandesina, la Pistoiese, squadra con i colori sociali dell'Olanda e da qui il suo soprannome. Con gli arancioni Andrea inizia a giocare nel 1988, per abbandonare quei colori per due stagioni, vissute con una maglia anch'essa particolare, quella grigia dell'Alessandria.
Torniamo adesso a parlare di rivalità. Pistoia e Prato non si amano e non riusciranno mai ad accettarsi e la rivalità sportiva tra le due città va avanti da anni e anni. Andrea Bellini, pratese con la maglia della Pistoiese: un sacrilegio per i biancoazzurri e una sfida per i tifosi arancioni.
Nel corso dell'intervista concessa dall'ex difensore ai microfoni di TuttoLegaPro.com nel corso del 71° appuntamento con "Mi ritorni in mente", Andrea confessa che non è bastato l'impegno in campo: "Per i primi due anni ero visto come un oggetto misterioso. Mi scrutavano e diffidavano di me". Potere di una rivalità infinita che ha visto però in Bellini il ramoscello d'ulivo gettato da una sponda all'altra.
Attuale allenatore di una piccola società toscana di Eccellenza, il Lanciotto, sta vivendo l'esperienza nel mondo dilettantistico con un campionato di C2 vinto (tramite ripescaggio nella stagione 2010/11, dopo finale persa contro la Carrarese, ndr) con il Prato e l'amarezza: "Di non aver ricevuto neanche una chiamata dalla D. Mi sembrava di impazzire e non riuscivo a capire".
Ripensando alla tua carriera: la gavetta un tempo era il marchio di fabbrica, senza il quale non potevi ambire a nulla. Oggi le cose sembrano completamente cambiate e ci ritroviamo un mercato dove il merito è andato in tribuna senza neanche passare dalla panchina.
"Parli con uno che ha fatto solo gavetta. Sono riuscito a giocare in B dopo aver vinto tre campionati con la Pistoiese: siamo partiti dai Dilettanti fino in C2, da lì alla C1 e poi la B. Mi sono guadagnato tutto sul campo. E devo dire che ogni anno, vincevo campionati, facevo oltre trenta presenze ogni stagione e ricevevo pochissime richieste di squadre. Tanti miei colleghi li ritrovavo in categorie superiori alla mia dove giocavo, senza particolari meriti. Non so perchè, forse il fatto di non aver mai avuto un procuratore, di non aver curato aspetti che sembra siano fondamentali nel calcio, come determinate amicizie".
Adesso sembra un optional la gavetta. E non solo per i giocatori, anche nel mondo degli allenatori
"E' la verità, sicuramente nel calcio la meritocrazia dovrebbe essere fondamentale. Negli ultimi tempi contano maggiormente le pubbliche relazioni, essere in un certo giro e questo è anche a scapito della qualità. Sono del parere che un allenatore debba occuparsi anche del campo e non solo di tutto quello che gira intorno allo stesso".
Tu dici: "Devi essere bravo nelle pubbliche relazioni". Un aspetto che un tempo non veniva preso in considerazione.
"Si, vero. La meritocrazia credo che vada di pari passo ai risultati che ottieni sul campo".
Rivedendo la storia di Walter Mazzari, all'indomani del suo esonero dall'Inter, viene fuori una riflessione: l'ambizione spesso ti fa' arrivare in ambiti dove non sei pronto. La dimensione del tecnico livornese è andata oltre le proprie capacità. E questo rischia di essere uno dei problemi maggiori, non tanto in Mazzarri, ma in allenatori che alla prima esperienza si trovano su una panchina che ha un peso non indifferente senza averne le capacità, con il rischio di bruciarsi.
"Mazzarri di gavetta ne ha fatta tanta e questa è la prima stagione che sbaglia. Nel calcio di oggi non conta quello che hai fatto nel passato, servono i fatti e quando non arrivano, come allenatore sei il primo che paga. Comunque credo che l'ambizione in uno che fa' il nostro mestiere dev'esserci: è anche un motore che aiuta nel fare i risultati. Con il realismo che non deve mai far dimenticare chi sei e quanto vali, segno di umiltà che ti contraddistingue come tecnico e soprattutto come uomo".
Esistono ancora i maestri di calcio?
"Si cerca di insegnare fin da bambini la tattica, i moduli, mentre una buona tecnica individuale è la base per la crescita dei ragazzi. L'esempio che mi balza agli occhi è il Barcellona: lavora molto sulla tecnica e meno sulla tattica, come purtroppo avviene in Italia".
Secondo te è il giocatore che esalta il modulo o è il modulo stesso che lo esalta?
"Una squadra deve avere una buona organizzazione, soprattutto nella fase difensiva. In quella offensiva invece credo che al giocatore vada lasciata la libertà di creare, senza imbrigliarlo in tattiche o moduli".
Ti diverte guardare le partite del campionato di serie A?
"Non tutte. Le squadre sono tutte ben organizzate, tatticamente sono al top e si gioca come davanti ad uno specchio: si vedono pochi colpi e le giocate del singolo tendono a diminuire particolarmente, che poi sono l'essenza del calcio".
Parlando dei protagonisti in campo: i giocatori. Prevalgono i muscoli, a scapito della tecnica.
"Sicuramente negli ultimi anni i ritmi e la stessa qualità degli allenamenti sono cambiati, portando i calciatori ad essere dei veri e propri atleti. Per cui è chiaro che la tecnica è andata a diminuire. Quando su un campo di calcio si corre a velocità doppia rispetto ad un tempo, si diventa meno precisi e fatta eccezione per quei giocatori che hanno delle doti naturali capaci di stravolgere l'equilibrio di una partita. Il calcio ormai è basato sulla velocità e sull'intensità".
Un tempo il giocatore con estro era escluso dal lavoro sporco che veniva ricondotto esclusivamente a due tre giocatori, cosidetti di fatica.
"Con il calcio di oggi, il giocatore deve saper fare entrambe le fasi: offensiva e difensiva. L'estroso, il numero dieci per intenderci, rimane tale, ma deve dare il suo contributo alla squadra in maniera diversa".
Luis Suarez, campione di un calcio che fu', in una sua intervista ha dichiarato: "Possibile che su cinque cross, tre vadano in tribuna, due sul culo del difensore? Eppure chi difende non è alto cinque metri".
"Si ritorna al discorso di prima: in un calcio così muscolare e veloce, ne va a scapito la precisione e il gesto. Molto probabilmente un tempo c'era modo di ragionare su quello che si faceva, mentre adesso tutto è fatto con il triplo della velocità e si perde la limpidezza stessa del gesto tecnico".
Anche i dribbling sembrano scomparsi: un tempo il giocatore che sapeva saltare l'uomo faceva la fortuna di un allenatore. Riuscire a dribblare un avversario significava creare la superiorità numerica in avanti e di conseguenza i pericoli per la difesa.
"Ti rispondo prendendola alla lontana: mi capita ogni tanto di andare a vedere le partite dei bambini e sento gli allenatori che proibiscono al bambino di dribblare. E' un errore clamoroso: se un bambino sa dribblare, devi dargli la possibilità di farlo. Mentre questo è un gesto tecnico che va rivalutato".
Ci sono anche tanti errori a livello difensivo.
"E si riscontra una difficoltà nella marcatura. Difendere a zona non significa non marcare, ma in quella zona bisogna essere più feroci sull'avversario. In area di rigore molto spesso di vedono errori di posizionamento abbastanza importanti, anche di giocatori molto esperti".
Come mai ci vogliono tanti anni per trovare un Totti o un Del Piero? Eppure la classe italiana è rinomata nel mondo per la crescita di talenti puri.
"Secondo me uno dei fattori scatenanti di questa crisi è la mancanza di programmazione nei settori giovanili e poi, diciamolo chiaramente: non si lavora sui giovani. In Italia non c'è il tempo di dare al talento la possibilità di crescere e così trovi un allenatore che ha un giovane di grandi prospettive e un giocatore normale, che non avrà grande prospettiva e nell'immediato può darti maggiori garanzie, tende a far giocare quest'ultimo. In questo modo il talento non cresce. L'allenatore in questi casi è costretto al male minore, a causa del problema - tutto italiano - di essere in discussione alla terza, quarta partita andata male. In questi casi per lavorare si bada più al sodo".
Sacchi dice: noi giochiamo un calcio sparagnino, figlio di un ambiente che bada esclusivamente al risultato.
"Si, sono d'accordo. Il risultato è quello che conta e questa ossessiva ricerca, porta lo spettacolo a diminuire. Risultato e spettacolo non vanno mai insieme. Un allenatore dovrebbe provare a trovare il giusto mix tra queste necessità".
Mentre in Italia si bada alla tattica, all'estero corrono il triplo e vincono.
"C'è un gap abbastanza importante tra le squadre italiane ed europee, dettato da molti fattori".
Ad esempio?
"Il fattore economico. Il campionato italiano non ha più l'appeal che aveva un tempo: ci sono squadre che hanno le disponibilità finanziarie per permettersi giocatori di una certa caratura. C'è anche il problema stadi: all'estero ci sono quelli di proprietà, da noi siamo agli albori. C'è un altro aspetto per niente marginale: leggevo l'intervista l'altro giorno di Rumenigge (ex attaccante tedesco dell'Inter anni '80, ndr) e faceva notare la differenza di metodo negli allenamenti: all'estero lavorano sull'intensità e corrono di più. Non so che tipo di allenamenti facciano, però guardando le partite di Champions o dei maggiori campionati europei, la cosa fa' pensare e bisogna tenerne conto".
Ciro Immobile stesso, passato quest'anno al Borussia Dortmund faceva notare questo: "In Italia lavoriamo tanto, forse troppo sulla tattica, mentre qui in Germania si cura maggiormente la tecnica".
"Avere una buona base tecnica sia un punto di partenza importante e da quella poi crescere sia a livello individuale che di squadra. Da quello non si prescinde".
Tu nella tua carriera da calciatore sei stato un difensore e ti poniamo questa riflessione: mediaticamente chi esalta le folle sono gli attaccanti, ma per esaltarne le doti c'è bisogno anche di gente come te. Protagonisti anche voi, seppure da comprimari.
"Si, sono d'accordo. L'aspetto fondamentale del calcio è il gol: il momento più esaltante. L'attaccante fin da bambini è quello che maggiormente attira l'attenzione. Per quelli come me, che hanno giocato per tanti anni con la stessa squadra, non sono mai andato a baciare una maglia sotto la curva, non ho mai fatto cose eclatanti, ma sono uno che ha timbrato il cartellino con la stessa maglia più di 450 volte. Alla fine è una bella soddisfazione per me e questo viene visto con rispetto dai tifosi della Pistoiese che hanno visto in me uno di loro, senza fronzoli".
Appesi gli scarpini al chiodo hai iniziato a fare l'allenatore e dopo l'esperienza a Pistoia sulla panchina degli arancioni, sei andato a Prato a fare il secondo di Orrico. Quest'ultimo nel 2009/10 si dimette e prendi il suo posto. Buona stagione, ma nella successiva, arrivate dietro le due corazzate Carpi e Carrarese. I modenesi vengono promossi in Prima Divisione, mentre contro i gialloblù perdete in finale play off, venendo ripescati l'estate successiva. Tu mi facevi notare prima dell'intervista dell'assenza di richieste nonostante avessi disputato due ottimi campionati con i lanieri.
"Son rimasto un anno fermo e non ho ricevuto nessuna chiamata, neanche da squadre di categorie inferiori. L'amarezza è tanta, perchè dopo un campionato simile con il Prato non mi aspettavo chissà cosa, ma neanche il silenzio che ho ricevuto. Mi riallaccio al discorso di prima e forse non sono stato capace di curare le pubbliche relazioni".
E questo porta al fenomeno dell'allenatore con la "valigetta". Per lavorare devi "pagare". Fenomeno che conoscono tutti, ma in pochi affrontano seriamente.
"Soprattutto in un periodo come questo, dove c'è crisi, le società non puntano alla meritocrazia, cercando altri aspetti che immagino, ma è meglio non parlarne perchè mi fanno solo ridere".
Tu sei arrivato a Pistoia da pratese nel 1988, arrivando a disputare quattordici stagioni in maglia arancione, intervallate da due anni ad Alessandria (dal 1996 al 1998, ndr). C'è un dualismo molto forte tra le due città. Ti chiedo proprio questo: come hai fatto a convincere un tifoso pistoiese a non guardarti con gli occhi della rivalità, ma farti apprezzare come uomo prima e come giocatore poi?
"Venivo dal Prato quando mi trasferii a Pistoia. Il primo anno c'era molta diffidenza: calciatore del Prato, pratese, mi guardavano e mi scrutavano. Dopo un paio di anni hanno iniziato ad apprezzarmi e sono stato adottato e questo ha aiutato le vittorie sul campo: in sei anni siamo passati dall'Interreggionale alla serie B. Non ho fatto nulla di particolare, ma penso che il tifoso pistoiese abbia visto in me un simbolo di una normalità che oggi tende a scomparire. Questo ha portato ad avere con il tempo un rapporto con la città molto forte e mi vogliono bene".
La partita che ricordi maggiormente con la maglia della Pistoiese?
"Uno spareggio per andare in B contro il Fiorenzuola a Bologna (stagione 1994/95, ndr), vincemmo ai rigori. Quello che ricordo di quella giornata splendida fu il ritorno a Pistoia, dove ci attese in pratica tutta la città e facemmo festa tutta la notte. Sono ricordi che ancora oggi indelebili".
Ci pensi ancora a sedere un domani sulla panchina della Pistoiese?
"Devo esser sincero: un pochino sono disilluso e dopo aver fatto due, tre anni bene, vedo che si fa' fatica. Mi piace il calcio e adoro questo ambiente. Dalla C2 sono finito in Eccellenza. Non disdegno le categorie inferiori, però è chiaro che l'ambizione c'è e la voglia anche, vediamo...".
Cosa ti piace ancora del calcio?
"L'ambiente stesso che mi piace. Mi piace lo sport in generale, ma del calcio mi piace la tensione prepartita. Mi piace allenare durante la settimana e vedere che la squadra durante la partita prova a mettere in pratica ciò che provi durante gli allenamenti. Mi piace vivere lo spogliatoio. Mi piace dopo essermi fatto la doccia ridere e scherzare con gli amici e con i calciatori stessi. E' tutto un insieme che ho vissuto tutta la vita e non riesco a dimenticarlo o a staccarmene".
Però ora le vivi da allenatore.
"E' un mestieraccio. Mi rendo conto che gli anni da giocatore sono stati stupendi e quando eri lì sul campo non riuscivi a viverle come avresti potuto e oggi, con il tempo che passa, le riassaporo anche solo chiudendo gli occhi, cogliendo quell'essenza che allora non riuscivo a sentire. Te ne accorgi adesso quando ormai fai un mestiere più difficile con maggiori responsabilità".
A distanza di anni cosa ricordi dell'Andrea Bellini giocatore?
"Mi ricordo degli anni stupendi. Ero più giovane e c'è un po di nostalgia. Del calcio che ho vissuto da protagonista non ricordo lo stipendio che prendevo o i premi partita, però ricordo nitidamente l'emozione che provavo quando scendevo in campo, la sensazione di contatto con la città e i campionati vinti. Sono aspetti importanti che rimangono, utili per trasmetterli alle nuove generazioni".
Il fatto di non aver guadagnato grandi cifre, non pensi che ti abbia aiutato a non perdere quella patina di romanticismo che ancora oggi il calcio sa regalare?
"Ammetto che ho avuto la possibilità di andare in altri club e avere gratificazioni economiche maggiori, ma facendo due conti penso che non ne sarebbe valsa la pena: a Pistoia e dove ho giocato sono riuscito a dare il meglio di me stesso proprio in virtù del fatto che mi sentivo un tutt'uno con l'ambiente. E non so se in altri ambiti sarei riuscito a fare lo stesso".
Prossima intervista per "Mi ritorni in mente": domenica 7 dicembre 2014.
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