ESCLUSIVA TLP - Mi ritorni in mente: Eugenio Fascetti

E' il fenomeno del momento, tutti ne parlano e chi non l'ha visto (come chi scrive) non sa cosa si perde. Ad ognuno i suoi piaceri ma è innegabile che Checco Zalone sia ormai diventato l'emblema dell'italiano medio. Capace con il suo umorismo di pancia di coinvolgere gli italiani come pochi attualmente. Zalone ha la capacità di travolgere chi lo va a vedere. Piace o non piace, questo è il personaggio che si è creato e con questo suo atteggiamento guascone ha vinto la sua battaglia.
Il comico deve avere questa particolarità: non passare inosservato. Altrimenti deve cercarsi altro da fare nella vita. L'umorismo è una dote che gli italiani hanno innata nel proprio dna e se c'è una regione che regala uomini originali questa è la Toscana. Nel calcio e non solo, il toscano medio non ha mai quella mimica uguale agli altri. Se gli altri cercano la mediazione per risolvere i problemi, quest'ultimo cerca lo scontro. Caratteri sanguigni e focosi, uno su tutti è Marcello Lippi. Quando allenava l'Inter fu capace di dichiarare in conferenza stampa che: "Se fossi il presidente manderei via subito l'allenatore, poi chiamerei i giocatori e li attaccherei tutti al muro e gli darei dei calci in culo a tutti".
E il toscano è un po' come Zalone: o lo ami o lo odi. La sua forza è proprio in questo.
Anche Eugenio Fascetti, decano degli allenatori, è il classico uomo di calcio capace con i suoi pensieri di andare a scrostare vecchi refrain andati ormai in disuso, non cercando mai frasi fatte ma parlando in maniera sana senza mai guardare in faccia nessuno e avere il coraggio di camminare sempre a testa alta. Fascetti con i suoi 75 anni e i trenta di panchine ci ha regalato un'intervista corrosiva e pungente, toccando con il sarcasmo classico di chi è nato in una terra di grandi uomini come la Toscana, i temi del calcio attuale e non, usando una dialettica che punge, invadendo gli anfratti dell'anima.
Tra i tanti meriti calcistici di Fascetti c'è la prima storica promozione in A del Lecce. Tre anni (dal 1983 al 1986) nel Salento, vissuti regalando ad una città, bella come poche nel sud Italia, emozioni che non si riescono a dimenticare. La serie A per Lecce ha significato la realizzazione di un sogno che sembrava non dovesse mai avverarsi. Già nel 1983/84 i giallorossi avevano sfiorato la massima serie arrivando a tre punti dalla Cremonese ultima a salire in A insieme a Como e Atalanta. Non si è arreso il buon Eugenio e con il temperamento che l'ha sempre contraddistinto nel suo mestiere, ha raggiunto la vetta. Peccato che dodici mesi dopo l'ascensore ha riportato nuovamente in B i pugliesi.
Prima di tornare nella cadetteria si è tolto la soddisfazione di scucire dalle maglie della Roma uno scudetto che sembrava vinto (campionato 1985/86), andando a vincere (da retrocesso) per 3-2 contro la squadra allora allenata da Sven Goran Eriksson a domicilio. Il tecnico svedese fu signorile nel dire ai microfoni Rai: "Complimenti al Lecce". Sportività che a certe latitudini, soprattutto le nostre, è merce rara.
Lecce ma non solo, c'è anche la Lazio salvata partendo da meno nove dalle forche caudine della serie C dopo un drammatico spareggio al "San Paolo" di Napoli contro Campobasso e Taranto (1986/87). Un record che Fascetti ancora oggi ostenta con orgoglio. Impresa storica nel calcio dove le vittorie davano ancora i due punti.
Ruvido e allo stesso tempo saggio, l'Eugenio di Viareggio ci ha regalato momenti di riflessione con la visione tipicamente contro di chi ne ha viste di tutti i colori per potersi meravigliare di qualcosa. Per questo viaggio esclusivo con Fascetti nell'appuntamento numero 46 con "Mi ritorni in mente", vogliamo partire proprio dall'attualità.
Mister lei cosa ne pensa della discriminazione territoriale?
"Bah! Lasciamo perdere, fa ridere questa cosa. L'Italia è sempre stata il paese - se mai ce n'è stato uno - fatto da queste rivalità aspre, che si deve solo ridere di una cosa simile. Si va a guardare il guascone e l'aspetto pittoresco. Non le capisco certe cose".
E la multa alla Juventus per i cori offensivi dei bambini contro il portiere dell'Udinese come la vede?
"Non intendo parlarne".
Senta, lei ormai è fuori dal calcio, commentando la Serie B per la Rai. Non le manca un po' il campo?
"No no, ormai ho chiuso".
Rimpianti?
"Per fortuna non sono persona che si crogiola nei rimpianti o nelle recriminazioni. Ho fatto quello che ho fatto e ne vado fiero".
Tra le sue tante imprese c'è quella Lazio salvata partendo da meno nove. Come si fa a preparare un campionato con un fardello simile?
"Come tutti i campionati, cercando di prepararsi domenica dopo domenica e ottenendo sempre il massimo da tutti".
Lei, in quella sua esperienza nella capitale, prima dell'inizio del campionato disse: "Chi non se la sente, può anche andarsene". Non se n'è andò via nessuno. Quale fu il segreto di quella impresa?
"Non c'erano segreti. Avevamo un grande gruppo e soprattutto non c'erano bischeri. La forza di quella squadra fu proprio nella condizione in cui dovevamo partire".
Facciamo un passo indietro: prima della Lazio, lei ha allenato il Lecce e in tre anni qualche soddisfazione anche in Salento se l'è tolta: prima un quarto posto a tre punti dalla Cremonese. La stagione successiva Serie A e l'anno dopo subito retrocessi.
"Era un Lecce costruito per vincere però non così forte per salvarsi in A. Sono stati tre anni meravigliosi dove abbiamo fatto qualcosa di molto bello".
Lei è sempre stato un tecnico abituato a lavorare con i giovani e il suo capolavoro è stato quello di scoprire Antonio Cassano. Un giocatore come lui poteva avere tutto, però ovunque è andato ha sempre fallito: Roma, Real Madrid, Inter, Milan e Sampdoria. A Parma sembra aver trovato la sua dimensione. Cosa gli è mancato per diventare ancora più forte?
"Chiedetelo a lui, non a me. Io posso dire che un giocatore con il suo talento a mia memoria non ricordo di averlo mai visto".
A proposito di talenti, come mai il calcio italiano stenta a sfornare giocatori come Cassano?
"Perché noi si ha paura di rischiare e non si fanno giocare i giovani. Invece di perderci dietro a polemiche sterili, proviamoli".
In questi ultimi anni il calcio italiano a livello di club non domina più come un tempo. E come dice bene lei, ci perdiamo dietro a tante polemiche. Non crede che il gap dalle squadre più forti in Europa dipenda anche dalla scarsa cultura che abbiamo a livello sportivo? Da noi non si accetta ad esempio la cultura della sconfitta. Non crede che sia anche questo uno dei motivi che ci impediscono di poter recuperare il terreno perduto?
"Non raccontiamoci favole. A nessuno piace perdere. Non credo che all'estero si sia felici di perdere".
Però è innegabile che per il dopo Pirlo o il dopo Buffon non ci sono molte alternative.
"Ripeto: facciamo giocare i giovani. Se non diamo loro l'opportunità non sapremo mai se sono validi o meno. Non crederemo mica che in Inghilterra le cose vadano meglio".
Un'ultima annotazione poi parliamo di altro: per il dopo Prandelli lei chi vede?
"Guardi di questa cosa non me ne frega niente".
Dalle sue risposte sembra di notare un J'accuse verso il sistema calcio italiano in genere.
"Sì, ha visto bene. Noi siamo abituati a farci del male e non vediamo il buono che abbiamo prodotto negli ultimi anni a livello di nazionale: secondi agli Europei e terzi in Confederations Cup. Non mi sembra che questo calcio sia così malato come si vuol far credere. Il problema di fondo è la nostra voglia di guardare sempre l'erba del vicino come la più verde".
Nella sua carriera ha allenato ovunque e quindi la domanda è d'obbligo: per costruire una buona squadra da dove si deve partire?
"Dalle fondamenta e quindi dalla difesa. L'arma migliore per riuscire a imporsi è creare i presupposti perché gli altri non segnino".
Si gestisce meglio la vittoria o la sconfitta?
"La vittoria è più bella e quando si vince va tutto bene".
Più difficile vincere un campionato o salvarsi?
"Molto più difficile vincere un campionato. Salvarsi in qualche modo ci riesci, perché vai più piano".
Prossimo appuntamento con "Mi ritorni in mente" per domenica 22 dicembre.
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