ESCLUSIVA TLP - Mi ritorni in mente : Pietro Mariani

ESCLUSIVA TLP -  Mi ritorni in mente : Pietro MarianiTMW/TuttoC.com
© foto di Prospero Scolpini/TuttoSalernitana.com
domenica 1 febbraio 2015, 22:30Interviste TC
di Daniele MOSCONI
76^ appuntamento

Quando cambiare ruolo diventa l'elisir di lunga vita per un calciatore. La storia del calcio è fatta di tante storie come quella di Pietro Mariani: da attaccante a difensore centrale, passando per terzino di spinta. I movimenti imparati da bambino, ripetuti centinaia di volte vengono messi in soffitta: vita nuova in mezzo al campo. I gol fatti da punta nei settori giovanili non servono più, ora si passa a giocare in maniera diversa. Tutto da rifare. 

Nato a Rieti, Pietro come detto nasce attaccante e nelle giovanili della squadra amaranto-celeste viene notato dal Torino che lo porta nel suo settore giovanile. Formazione e crescita, questo è per Mariani la sua esperienza, neanche quindicenne, nella "cantera" granata. I suoi primi anni nel capoluogo piemontese li vive accanto a quei due mostri sacri che sono Paolo Pulici e Francesco Graziani. Da loro imparerà i trucchi di un mestiere che da lì a qualche anno andrà nel dimenticatoio. Nel 1987 a Brescia come allenatore trova Franco Varrella. Questi nota le sue doti atletiche e inizia a pensare che quel giocatore arrivato come attaccante doveva e poteva fargli comodo in una posizione diversa in mezzo al campo. Gliene parla, ma trova un atteggiamento non particolarmente benevolo da parte del giocatore. All'inizio la cosa non la prende benissimo ed è restio a cambiare. Con l'aiuto del tecnico e dell'allora Direttore sportivo Sogliano, Mariani si ritaglia almeno altri cinque anni di carriera a buon livello. E ancora oggi Pietro deve molto a Varrella che con quella intuizione l'ha reso più "longevo" atleticamente.

Quella carriera lo porta a giocare a Benevento (nel 1998), quasi per gioco. Era reduce dall'esperienza di Padova,  quando un giorno si trova in autostrada dalle parti di Candela e suona il telefonino. All'inizio gli sembra uno scherzo, invece era tutto vero e la proposta del club giallorosso lo ha intrigato. Nel Sannio disputerà tre stagioni, dove al primo colpo vincerà il campionato di C2, nella seconda si insedierà in C1 e nella terza all'ultima giornata contro l'Andria infila il gol che salva i giallorossi e condana i pugliesi alla retrocessione. 

Una chiacchierata piacevole che apre il 76° appuntamento con lo spazio dedicato a "Mi ritorni in mente", dove Pietro Mariani in esclusiva racconta la sua vita da calciatore.

Sei soprannominato "Pedro": chi ti ha dato questo nomignolo?

"Al tempo in cui giocavo nelle giovanili del Torino c'era un giornalista sportivo che seguiva questi campionati. In quel periodo giocavo attaccante e facevo caterve di gol: due, tre, quattro gol a partita. In realtà il soprannome era "Pedro abracadabra". Per lui la mia capacità di segnare era come una magia e da quello nasce questo soprannome che porto ancora oggi".

Della tua infanzia cosa ricordi?

"Sono i ricordi più piacevoli: giocavo in una squadra di periferia, il Cantalice, anche lì segnavo a grappoli. Un giorno ci fu un raduno e io a dire il vero non ero tra quelli da visionare. C'era questo Di Cosimo Guido che faceva le selezioni e mi notò. Feci dei provini tra Roma e Torino. Un giorno mi arrivò una lettera dal Torino che mi invitava a salire da loro per iniziare questa avventura. Avevo quattordici anni e arrivai in granata nell'anno in cui loro persero lo scudetto per un punto contro la Juventus (51 a 50 per i bianconeri nel campionato 1976/77, ndr). Giocavo negli Allievi e l'anno successivo ero con la Primavera. In due anni e mezzo mi avvicinai alle porte della prima squadra. Esordii a Cagliari il 16 settembre del 1979: non ero neanche maggiorenne".

Il tuo trasferimento al Torino così giovane come viene preso dai tuoi genitori?

"I miei genitori erano persone molto umili: facevano i contadini. Mi appoggiarono nella mia scelta e ad un certo punto penso che fossero contenti da un lato di questa mia scelta di accettare così precocemente il passaggio al Torino. In realtà sentivo molto la loro presenza, senza che fosse mai invadente: il loro contributo, alle volte anche economico non mi è mai mancato. Quello che ricordo era il loro affetto e quando capitava venivano spesso a trovarmi e quando c'era qualche trasferta vicina, tipo Roma, Firenze, Ascoli erano in tribuna ad incoraggiarmi. Sono stati fondamentali: non avevo dubbi su questo aspetto. Sono stato fortunato anche ad andare in un settore giovanile come quello del Torino, che ai tempi era all'avanguardia: avevamo un tutor, uno psicologo, ci seguivano a scuola. Ci sentivamo come una grande famiglia".

Che figlio pensi di essere stato?

"Penso di avere regalato delle soddisfazioni, non solo professionali, alle persone che mi hanno voluto bene. Non ho mai perso di vista da dove sono partito e quello che avevo fatto per arrivare dov'ero. Non ho perso di vista il sacrificio, i soldi. La fama e la notorietà non mi hanno disturbato. Sono valori che non si perdono, sono dentro di te e sono una guida per la vita. Sono sempre stato lo stesso: gioviale, compagnone. Non ho mai perso di vista chi sono e penso che possano essere soddisfatti di me. Non ce lo siamo mai detti, ma credo che la cosa non c'era bisogno di dirla: era insita negli sguardi tra di noi".

Della tua esperienza nel settore giovanile granata tu ricordi l'"essere una grande famiglia". Cosa ti ha insegnato quel periodo?

"Le regole".

Puoi andare nello specifico?

"Certamente: erano regole ferree e non si guardava in faccia nessuno. Anche i più bravi rischiavano di trovarsi le valigie pronte per tornare a casa. Questa tua domanda mi fa sorgere una riflessione che faccio spesso: è incredibile come il calcio si sia evoluto...al contrario".

Al contrario?

"Ma si: qualche tempo fa l'allenatore della Juventus, Antonio Conte ha messo in panchina Andrea Pirlo per un ritardo in un allenamento e tutti a dargli addosso. Ai tempi delle giovanili del Torino la cosa era normale. Erano molto severi su certi aspetti. All'epoca le società che facevano uscire più ragazzi dal settore giovanile, oltre al Torino c'era l'Atalanta. Ne venivano fuori tre, quattro a stagione. In prima squadra eravamo sette, otto/undicesimi che venivano dal settore giovanile. Oggi per farne uscire uno ci vogliono non so quanti anni di attività. Le regole, l'onestà intellettuale, il rigore, la puntualità. Quelli che sono i valori veri: loro non ti facevano mai perdere di vista il comportamento. Ricordi di ragazzi che furono rispediti a casa per molto poco".

Ad esempio?

"Eravamo in trenta, quaranta ragazzi, in un convitto in corso Vittorio Emanuele e capitava che il pomeriggio si usciva per una passeggiata. L'ora della cena era tassativa alle 19:30. Guai se sgarravi di qualche minuto. Per loro il tram perso o in ritardo erano scuse che non venivano accettate di buon grado. Ci lavavamo i panni nei vasconi e ce li dovevamo stirare: ognuno aveva il suo armadietto nello spogliatoio che dovevamo tenere pulito: ogni tanto passavano e ce li facevano aprire per controllarli. Ci dovevamo rifare il letto da soli e tenere i nostri vestiti nel convitto ben riposti. Erano avanti almeno dieci anni rispetto al resto degli altri club. E menomale aggiungo io. C'era la scuola serale, ci portavano e ci venivano a riprendere. Avevamo un tutor per ogni sei,sette ragazzi, uno psicologo. Guardavano come ci vestivamo. Ci davano tanti, questo si, ma pretendevano il massimo da noi".

Ci sono degli allenatori che ancora oggi sono attenti all'orario e vengono visti male dalla critica.

"Ed è una cosa incomprensibile: lo spogliatoio è una cosa sacra e mi meraviglia tutto questo. C'era un rispetto delle regole molto forte: guai se nello spogliatoio alzavi la voce. Ricordo una scena: ero al Torino e un pomeriggio Ciccio Graziani mi vide che ero sul lettino dei massaggi che mi facevo una fasciatura. Mi fece scendere e mi disse che dovevo mettere il piede sotto la panca dello spogliatoio: magari all'inizio ti viene male e cresce qualche vescica, però con il tempo imparerai. Una volta, avevo diciassette anni, eravamo in ritiro ad Asti e mi feci fare un massaggio drenante, lui si incazzò come una bestia: per loro era inammissibile che un ragazzo della mia età si facesse fare i massaggi. Era un processo ben preciso che mi sono ritrovato come insegnamento nel corso degli anni. Se è vero che mi trovavo con la prima squadra, bastava un piccolo sgarro che mi retrocedevano alla Primavera o agli stessi Allievi: un modo molto chirurgico di dire che dovevi fare bene, fare la differenza. E se arrivavi scazzato, te ne pentivi amaramente. Se ripenso al calcio di allora e mi soffermo ad oggi, devo dire che siamo molto indietro".

Tu nel Torino arrivi in prima squadra e trovi Pulici e Graziani: i "gemelli del gol".

"Pulici era devastante, secondo me uno dei primi tre, quattro attaccanti italiani di sempre, dopo Piola e Meazza: parliamo di gente che ha fatto la storia. Aveva una media gol pazzesca. Arrivai che lui e Graziani, erano entrambi in nazionale. Gigi Radice, l'allora allenatore del Torino, fu coraggioso nel gettarmi nella mischia: è vero che ero bravo, ma dovevo comunque dimostrare tutto il mio valore, non solo sulla carta. Sostituire Pulici fu molto difficile: dal punto di vista psicologico, fisico e mentale. Non reggevo il confronto, però posso ritenermi fortunato perchè da loro ho imparato molto: per tornare al discorso di prima, mi chiedevano se avevo spedito i soldi a casa, come li spendevo. Guardavano come mi vestivo. Capitava che a fine allenamento loro due si fermassero a darmi dei consigli su come calciare, come proteggere la palla, palleggiare. Oggi è difficile che la cosa avvenga: entrano in macchina e se ne vanno, sbattendosene altamente di darti dei consigli. Devo dire che noi ci facevamo anche seguire e la nostra fortuna fu quella di avere due maestri come loro che ci insegnavano molto. Non dimentichiamo che quando arrivai in prima squadra, c'era il blocco degli stranieri e per noi italiani era più facile arrivare, il terzo attaccante era Maurizio Iorio. Non era semplice stare dietro attaccanti come loro. Da ognuno di loro ho imparato molto".

La tua carriera da calciatore inizia da attaccante per poi terminare molti anni dopo da difensore centrale.

"E' stata fatta molta confusione sul mio ruolo: come detto, nasco attaccante. Quando arrivai a Brescia (nel 1987, ndr) l'allenatore era Franco Varrella che sostituiva Bruno Giorgi. Come Direttore sportivo delle rondinelle c'era Riccardo Sogliano. Eravamo in ritiro e il tecnico mi chiama e mi dice: tu hai tanta corsa, sai anche difendere oltre ad offendere - dote imparata guardando e riguardando Ciccio Graziani e Paolo Pulici nel Torino - perchè non provi a fare il terzino di fascia con compiti di spinta? Se non va bene torni a fare l'attaccante. Tu capirai che per me fu un trauma: era un po come togliere la chiacchiera ad un attore. Non ero contento: temevo fortissimamente che volessero declassarmi come a dire: non ci piaci come attaccante, non ti vogliamo tagliare, però devi fare un sacrificio. Non la presi particolarmente bene".

In effetti il tuo malcontento l'hai espresso in maniera chiara.

"Devo dire che la cosa se all'inizio la presi male, con il passare dei giorni, eravamo in ritiro, iniziò a piacermi. Provammo le diagonali, le chiusure, i movimenti in fase di spinta e quelli in copertura. Quella a distanza di anni fu una grande intuizione di uno come Franco (Varrella, ndr) che ci aveva visto lungo, adeguandosi ad un'idea di calcio che da lì a qualche anno avrebbe fatto nascere i terzini tipo Cafù, pronti a diventare attaccanti aggiunti. Ricordo che facemmo la prima amichevole contro il Milan, c'era Fabio Capello come Direttore tecnico e Arrigo Sacchi come allenatore. Quel giorno arrivò anche Berlusconi con l'elicottero. Quel giorno giocai molto bene e a fine partita bussarono allo spogliatoio - ero tutto bagnato, appena uscito dalla doccia - e mi fecero i complimenti per la mia prestazione. Quell'anno arrivai terzo dietro la graduatoria di rendimento, dietro addirittura ad un mostro sacro come Franco Baresi. Andando a guardare il bicchiere mezzo pieno, devo dire che quell'intuizione di Varrella fu fondamentale per allungare la mia carriera: in A non ero un bomber da doppia cifra e il rischio che correvo era di ritrovarmi in B o C nell'arco di due, tre anni. Ero ormai alla soglia dei trent'anni, da lì a qualche anno avrei smesso. Quel cambio di posizione mi fece conquistare anni importanti nella stessa massima serie con il Bologna (nel 1990, ndr). Di seguito andai a Venezia (nel 1992) dove abbiamo lottato per arrivare in A, disputando comunque campionati importanti. Fu una manna dal cielo".

Devi molto a Franco Varrella e Riccardo Sogliano

"Proprio quell'anno che arrivai al Brescia, c'era il Pisa di Romeo Anconetani in A che mi avrebbe preso, qualora non mi avessero tenuto come attaccante. Invece fu un successo: sette e mezzo di media, un anno pazzesco. Quel cambio è stato il mio toccasana: mi sentivo all'inizio come un ingegnere a cui veniva richiesto di tornare a fare il manovale. Avevo la capacità di saper difendere, saltavo l'uomo facilmente e Varrella intuì che in un calcio moderno uno come me poteva reinventarsi uomo per ogni situazione".

E difensore centrale come lo sei diventato?

"Sempre a Brescia, una domenica contro il Bari eravamo decimati da infortuni e squalifiche: diventai difensore centrale per l'occorrenza e quello fu il mio terzo cambio di ruolo".

Hai detto una cosa fondamentale: "Saltavo l'uomo". E' raro vedere qualcuno che dribbla l'avversario.

"Se ci facciamo caso, guardando le partite e ci soffermiamo sull'azione offensiva, non ci sono più le catene offensive come faceva il Milan di Sacchi, con Ancelotti che andava in profondità e Colombo ritornava. Ci sono molti giocatori bravi tecnicamente, trattano bene la palla, ma arrivati ad un certo punto non sanno più cosa fare. Il calcio è cambiato davvero tanto: oggi sono tutte azioni filtranti, uno-due in velocità. Permettimi di fare una domanda: chi sa fare ancora un cross dal fondo?".

Bella domanda

"Parliamo di cross dal fondo, non sanno più marcare. Prendi il gol di Higuain a Chiellini, che per quanto bravo possa essere non può prendere un gol simile. La zona non impedisce di marcare: io marco nella mia zona. Però il fondamentale della marcatura deve esserci sempre. Come lo stesso gioco sugli esterni: sono poche le squadre che esaltano il gioco sugli esterni. Sono pochi i calciatori che sanno farlo: Samir Nasri del Manchester City, Frank Ribery del Bayern Monaco. Ricordo che quando giocavo c'era gente come Causio, Tardelli, Bruno Conti, Donadoni, Beccalossi. Ogni società aveva due tre uomini che sapevano fare questo tipo di movimenti".

Tra i presidente che hai avuto, ce n'è uno che ti ha citato in un'intervista: Maurizio Zamparini. L'attuale numero uno del Palermo ha detto: "Tra i tanti giocatori che ho avuto, porto con me un ottimo ricordo di Pietro Mariani".

"L'ho avuto come presidente a Venezia. E devo dire che mi ha fatto molto piacere essere citato da un personaggio come lui. Ci chiamava i suoi figli, non ci vedeva come calciatori. E' rimasto un bellissimo rapporto tra me e Zamparini".

Nel calcio la vita professionale e privata, si incontrano?

"Questo è un po un luogo comune: come dire che la scuola, lo studio e il calcio non potessero conciliarsi. Non è assolutamente vero. Quando il ragazzo molla la presa sugli studi per pensare al calcio, questo è un grandissimo errore. Certo, il tempo si restringe: se vuoi il tempo per appartarti con gli amici, cazzeggiare e andare a bere, non puoi farlo. Se la mattina vai a scuola, il pomeriggio allenamento e poi studio, non puoi anche avere gli amici. A qualcosa devi rinunciare. Bisogna avere la buona volontà di riuscirci. Le amicizie le ho tutte, ma non le ho potute coltivare come avrei potuto perchè sono andato via da Rieti giovanissimo. Credo che il rispetto e l'amicizia, senza dimenticare quello che si è vissuto, gioito e sofferto, non vanno mai dimenticati. Si può conciliare tutto: calcio, amici, divertimento. Basta avere la consapevolezza di dover fare le rinunce. Lo sport come ti dà, così ti toglie: devi dimenticare che il venerdì e il sabato esci con gli amici. Devi ritagliarti i divertimenti, che so, il lunedì quando è giorno di riposo. La coperta da una parte deve accorciarsi".

E arriviamo a Benevento (1998): come hai fatto ad arrivare ai sanniti?

"Ero a fine carriera ormai e venivo da una buona stagione a Padova (1997/98), mi trovavo a Candela in autostrada e mi chiama il Direttore sportivo Luigi Imparato. All'inizio sembrava uno scherzo e ci incontrammo da lì a qualche giorno. Era un progetto che mi piaceva: si ripartiva da zero, dalla C2, una squadra giovane con qualche giocatore esperto a fare da chioccia. Facendo le mie valutazioni, accettai visto che mi trovavo anche ad un paio di ore da casa. Ho vissuto tanti anni con la maglia giallorossa, facendo anche l'allenatore del settore giovanile. Vincemmo il campionato di C2 al primo colpo, tornando in C1 dopo sedici anni di assenza".

C'è una data importante: 20 maggio 2001, quel Benevento-Fidelis Andria scontro salvezza con un tuo gol.

"Io avevo comunicato il mio addio al calcio. Quell'anno ci giocavamo la salvezza con la Lodigiani (stagione 2000/01). La società era in grosse difficoltà: dovevano pagare qualcosa come un paio di milioni di euro di debiti. Non ricordo neanche come arrivò quel gol: ci fu questa palla che mi arrivò sul destro da circa trenta metri e la calciai d'istinto - eravamo sull'1-1 - finendo sotto l'incrocio dei pali. Quel gol condannò i pugliesi alla retrocessione e io fui portato sull'altare degli idoli dei tifosi beneventani. La sera alle otto ancora ero sul campo, non potendo uscire visto l'entusiasmo che c'era nei dintorni. Fu una cosa incredibile per loro: salvarsi avrebbe significato anche la salvezza della società stessa. Il 18 giugno dello stesso anno feci la partita di addio, c'erano anche le telecamere di Sky, vennero Alessandro Altobelli, Francesco Graziani. Finire così non potevo chiedere di meglio. Allora c'era una C1 di squadre fenomenali come l'Arezzo di Cosmi, il Palermo di Morgia. Salvarsi per due anni era un traguardo importantissimo".

Questo sembra l'anno giusto per coronare il grande sogno la serie B.

"All'inizio non mi piacevano, lo ammetto. Con il passare delle domeniche li ho visti più convinti dei loro mezzi. Va dato atto che il patron Vigorito ha profuso molti soldi sulla squadra e secondo me sono pornti per il grande salto. Alla lunga se la giocheranno con la Salernitana per la vittoria finale: chi non ce la fa arriverà in B tramite i play off".

Prossima intervista per "Mi ritorni in mente": domenica 15 febbraio 2015